Mirna

Forse, se vado di fretta. Sento di dover rimediare. La pazienza. Io sorrido. Ho preso in mano un rasoio e ho anticipato la vita. La ruvidità della polvere. Era una bugia. Non guardarmi. Ho trovato una bambina, a casa sua. Sono guarita. Posso disegnarti?

 

Io vado sempre di fretta, sì. Solo così sento di poter rimediare, non so bene a che cosa.

Mi chiamo Mirna e con la sensazione di dover rimediare ci sono nata, cazzo! Mi pare inevitabile quando si viene al mondo come me. Ma pazienza, sono contenta anche così. Sono anche felice, io, sì, e questo, tanto per cominciare, disturba tutti quelli che non lo sono. Che sono tanti, ma tanti.

Non si può non essere felici quando si scampa a una grande malattia. E io sono guarita e per questo, per tutta la vita, non potrò fare altro che festeggiare. Che se anche fossi morta, comunque, questo non sarebbe stato poi il gran dispiacere di molti. Lo dico ancora: pazienza! Io sorrido lo stesso.

Mi sono ammalata, sì, non molto tempo fa, e mi sono caduti i capelli. E per non sentirli scivolare, a ciocche lagnose, dalla testa, una mattina ho preso in mano un rasoio e ho anticipato la vita. Da allora, anche se sono passati quattro anni, non ho mai smesso di farlo. Ed ecco il mio attuale look, tutto stonato: per metà della testa porto i capelli rasati, come un Marine, per l’altra sono lunghi, con qualche schiribizzo ricciuto. La mia pettinatura è una cosa che mi piace, sì, una cosa che mi aiuta a sentirmi le spalle grosse.

Il mercoledì vado a fare le pulizie a casa di Teresa. Succede così, a volte, quando non si ha studiato tanto. Però ho letto tutta Agatha Christie, io. Tutta: anche il teatro, intendo. E un giorno leggerò anche i suoi romanzi rosa, quelli che nessuno sa che lei ha scritto, perché li ha scritti con un nome diverso, che a volte è un problema essere per come si è, se tutti credono che tu sia fatto in un modo diverso.

Teresa mi piace, lei piace a tutti. Sarà perché una persona anziana può sembrare indifesa. Ma lei non è indifesa. Semplicemente, ha già combattuto tutte le sue battaglie. Forse quasi tutte. Sì, si capisce che qualcosa ce l’ha ancora lì, come in attesa di un duello finale.

Io vivo in una casa famiglia. Sono di tutti e per questo di nessuno.

Quando sono tornata a casa dall’ospedale ˗ definitivamente, voglio dire ˗ mi è stata data una stanza tutta per me nell’istituto. E questo ha ufficializzato il mio ingresso nel mondo degli adulti.

Ora vivo nella parte di qua, quella dove stanno gli operatori, che non appartengono al mondo di chi una famiglia non ce l’ha, ma solo al mondo di chi, quelli senza una famiglia, li aiuta. Li aiuta perché è più forte. È così è stato come se d’improvviso non fossi più stata un’orfana, ma una più forte.

Io una mamma non ce l’ho mai avuta. Ne piango ogni notte, senza vergogna, da che ho memoria. Ma non ho mai voluto fare come nei film, io, e provare a mettermi in cerca di lei. Potresti, se volessi, qualcuno mi ha detto, visto che oggi, con le nuove leggi, con Internet… Ma io sono questa qui, questa cosa senza una mamma, e pure, sono il risultato di mille occhi e mille carezze di persone buone che hanno sempre provato a essere con me tutto ciò che può essere una madre.

Per questo non ti cerco, mamma. Non voglio rischiare di disturbarti. Non voglio farti ripiombare nei mille perché che ti avranno portato a una certa decisione. In fondo, se è vero che possiamo ritrovarci, la strada sarà aperta anche dalla tua, di direzione, o no? Ha senso cercare di rovesciare un destino? Voglio accettarla così com’è la mia vita, perché è un modo di accettare anche me stessa, qualsiasi cosa io sia e possa diventare.

E poi, in fondo, non avrei il coraggio di indagare, chiedere: quando guardo le persone sono in difficoltà e a quel punto tutto ciò che vorrei dire loro è non guardarmi, e siccome non posso, spesso me la cavo con un posso provare a disegnarti? E allora sorride, la gente, smette di osservarmi in quel modo e pensa che persino una come me potrebbe tirar fuori una sua sorpresa.

Ma se ritrovassi lei, mia madre, potrei mai dirle posso provare a disegnarti?

Sono vent’anni che provo a disegnarla, la mia mamma. A volte la faccio un po’ somigliante a me, poi penso che lei potrebbe essere ben più bella di me e allora mi viene in mente che potrei aver preso anche da mio padre. Avrò pur avuto anche io un padre.

Un po’ mi mancano le corsie, di quando ero malata. Ero l’unica che si ostinava a non portare un pigiama e a ciondolare in giro con i jeans strappati, le canottiere da uomo, anche quando facevano sbucare cerotti e tubicini, e sì: il moccio al naso.

“Mirna, soffiati il naso, non ce l’hai il fazzoletto?” mi dicevano le infermiere. “Sembri una bambinetta, sempre con quel moccio al naso!” Allora io a recuperare un po’ di carta igienica in bagno, un attimo prima che quel moccio diventasse pure verde, come uno scugnizzo di strada. Come uno scugnizzo a Milano. È che per avere un fazzoletto sempre a portata di mano, bisognerebbe anche avere una borsa, penso. Una bella borsa a tracolla, come usa una donna. Una donna che sa badare a se stessa, se è una donna.

Il mercoledì faccio le pulizie a casa di Teresa, dicevo. Non c’è verso che lei stia ferma, mentre io armeggio tra stracci e detersivi.

“Faccio io, Teresa, cosa sono qui a fare. Siedi, tu!”

Ma è più forte di lei provare a dare una mano al mondo.

Mercoledì scorso ho trovato una bambina a casa sua. Non so da dove fosse sbucata. Sembrava essersi materializzata così, dal chiarore del giardino. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho notato che ha voluto restringere il sorriso, richiudendo i suoi denti, leggermente sporgenti, tra le labbra. Anche io ho avuto i denti un po’ così, da piccola. Poi, crescendo, si sono allineati con gli altri e non si è più notato così tanto. Avrei voluto raccontarglielo, ma ho avuto il buon senso di tacere e di distogliere presto lo sguardo da quel suo adorabile particolare. Secondo me, però, lei lo ha capito. È da lì che è nata la nostra reciproca simpatia. Ed è stato da quel pomeriggio che non mi sono sentita più la piccola di casa, quella che Teresa si sforzava sempre di proteggere con i suoi ma sei sicura che ce la fai con quelle persiane? Non salire troppo in alto su quella scala! Poteva esserci qualcuno di più giovane di me, di più tenero di me, di più fragile di me. Non mi sono mai sentita così – cresciuta, credo – neanche quando sono passata dalla parte degli operatori, in istituto, per prendermi cura degli abbandonati, dei più deboli.

“È avanzata una fetta di pane e di marmellata, qui, sul fondo della pentola, ce n’è ancora un sacco. Ne vuoi?” mi ha detto Dora, quasi subito, come se si trovasse nell’agio di casa sua.

È facile sentirsi a casa propria, del resto, nella cucina di Teresa. Le altre stanze, invece, le pulisco, le spolvero, anzi, poi seguo le indicazioni ricevute e le oscuro. È solo dove ci sono i fornelli che la vita di Teresa e di tutte le persone che la circondano inizia a pulsare.

Sto facendo un ritratto, con i gessetti bianchi, adesso. Qui, sulla lavagna nera della stanza dei compiti, in istituto. Osservo quello che ho disegnato: mi piace. La polvere del gesso è ruvida e asciutta sulle mie dita. Mi chiedo se lo scorrere di questi minuscoli granelli potrebbe un giorno cancellare le mie impronte digitali. Sarebbe un modo per ricominciare davvero da zero. Gli orfani possono cominciare da zero, mi hanno raccontato. Ma era una bugia.

Una volta Teresa era malata. Io stavo seduta vicino al suo comodino. Lei dormiva e io ho lasciato che le mie dita scivolassero sotto il suo palmo, distendendo le sue, di dita, così nodose: i suoi polpastrelli erano lisci, come se il tempo avesse levigato le sue impronte. Come se avesse vissuto così tanto da esser pronta a ricominciare una nuova vita. O pronta per lasciar dissolvere per sempre quella che aveva vissuto. Poi ha riaperto gli occhi, io ho cercato una scusa per nascondere i miei pensieri. Lo faccio sempre, sì. Mi riesce più facile essere il giullare di corte. Anche quella volta ci ero riuscita: Teresa ha sorriso.

Sono andata via di tutta fretta, poi. Perché sapevo che sarebbe arrivata Laura.