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Mirna

Forse, se vado di fretta. Sento di dover rimediare. La pazienza. Io sorrido. Ho preso in mano un rasoio e ho anticipato la vita. La ruvidità della polvere. Era una bugia. Non guardarmi. Ho trovato una bambina, a casa sua. Sono guarita. Posso disegnarti?

 

Io vado sempre di fretta, sì. Solo così sento di poter rimediare, non so bene a che cosa.

Mi chiamo Mirna e con la sensazione di dover rimediare ci sono nata, cazzo! Mi pare inevitabile quando si viene al mondo come me. Ma pazienza, sono contenta anche così. Sono anche felice, io, sì, e questo, tanto per cominciare, disturba tutti quelli che non lo sono. Che sono tanti, ma tanti.

Non si può non essere felici quando si scampa a una grande malattia. E io sono guarita e per questo, per tutta la vita, non potrò fare altro che festeggiare. Che se anche fossi morta, comunque, questo non sarebbe stato poi il gran dispiacere di molti. Lo dico ancora: pazienza! Io sorrido lo stesso.

Mi sono ammalata, sì, non molto tempo fa, e mi sono caduti i capelli. E per non sentirli scivolare, a ciocche lagnose, dalla testa, una mattina ho preso in mano un rasoio e ho anticipato la vita. Da allora, anche se sono passati quattro anni, non ho mai smesso di farlo. Ed ecco il mio attuale look, tutto stonato: per metà della testa porto i capelli rasati, come un Marine, per l’altra sono lunghi, con qualche schiribizzo ricciuto. La mia pettinatura è una cosa che mi piace, sì, una cosa che mi aiuta a sentirmi le spalle grosse.

Il mercoledì vado a fare le pulizie a casa di Teresa. Succede così, a volte, quando non si ha studiato tanto. Però ho letto tutta Agatha Christie, io. Tutta: anche il teatro, intendo. E un giorno leggerò anche i suoi romanzi rosa, quelli che nessuno sa che lei ha scritto, perché li ha scritti con un nome diverso, che a volte è un problema essere per come si è, se tutti credono che tu sia fatto in un modo diverso.

Teresa mi piace, lei piace a tutti. Sarà perché una persona anziana può sembrare indifesa. Ma lei non è indifesa. Semplicemente, ha già combattuto tutte le sue battaglie. Forse quasi tutte. Sì, si capisce che qualcosa ce l’ha ancora lì, come in attesa di un duello finale.

Io vivo in una casa famiglia. Sono di tutti e per questo di nessuno.

Quando sono tornata a casa dall’ospedale ˗ definitivamente, voglio dire ˗ mi è stata data una stanza tutta per me nell’istituto. E questo ha ufficializzato il mio ingresso nel mondo degli adulti.

Ora vivo nella parte di qua, quella dove stanno gli operatori, che non appartengono al mondo di chi una famiglia non ce l’ha, ma solo al mondo di chi, quelli senza una famiglia, li aiuta. Li aiuta perché è più forte. È così è stato come se d’improvviso non fossi più stata un’orfana, ma una più forte.

Io una mamma non ce l’ho mai avuta. Ne piango ogni notte, senza vergogna, da che ho memoria. Ma non ho mai voluto fare come nei film, io, e provare a mettermi in cerca di lei. Potresti, se volessi, qualcuno mi ha detto, visto che oggi, con le nuove leggi, con Internet… Ma io sono questa qui, questa cosa senza una mamma, e pure, sono il risultato di mille occhi e mille carezze di persone buone che hanno sempre provato a essere con me tutto ciò che può essere una madre.

Per questo non ti cerco, mamma. Non voglio rischiare di disturbarti. Non voglio farti ripiombare nei mille perché che ti avranno portato a una certa decisione. In fondo, se è vero che possiamo ritrovarci, la strada sarà aperta anche dalla tua, di direzione, o no? Ha senso cercare di rovesciare un destino? Voglio accettarla così com’è la mia vita, perché è un modo di accettare anche me stessa, qualsiasi cosa io sia e possa diventare.

E poi, in fondo, non avrei il coraggio di indagare, chiedere: quando guardo le persone sono in difficoltà e a quel punto tutto ciò che vorrei dire loro è non guardarmi, e siccome non posso, spesso me la cavo con un posso provare a disegnarti? E allora sorride, la gente, smette di osservarmi in quel modo e pensa che persino una come me potrebbe tirar fuori una sua sorpresa.

Ma se ritrovassi lei, mia madre, potrei mai dirle posso provare a disegnarti?

Sono vent’anni che provo a disegnarla, la mia mamma. A volte la faccio un po’ somigliante a me, poi penso che lei potrebbe essere ben più bella di me e allora mi viene in mente che potrei aver preso anche da mio padre. Avrò pur avuto anche io un padre.

Un po’ mi mancano le corsie, di quando ero malata. Ero l’unica che si ostinava a non portare un pigiama e a ciondolare in giro con i jeans strappati, le canottiere da uomo, anche quando facevano sbucare cerotti e tubicini, e sì: il moccio al naso.

“Mirna, soffiati il naso, non ce l’hai il fazzoletto?” mi dicevano le infermiere. “Sembri una bambinetta, sempre con quel moccio al naso!” Allora io a recuperare un po’ di carta igienica in bagno, un attimo prima che quel moccio diventasse pure verde, come uno scugnizzo di strada. Come uno scugnizzo a Milano. È che per avere un fazzoletto sempre a portata di mano, bisognerebbe anche avere una borsa, penso. Una bella borsa a tracolla, come usa una donna. Una donna che sa badare a se stessa, se è una donna.

Il mercoledì faccio le pulizie a casa di Teresa, dicevo. Non c’è verso che lei stia ferma, mentre io armeggio tra stracci e detersivi.

“Faccio io, Teresa, cosa sono qui a fare. Siedi, tu!”

Ma è più forte di lei provare a dare una mano al mondo.

Mercoledì scorso ho trovato una bambina a casa sua. Non so da dove fosse sbucata. Sembrava essersi materializzata così, dal chiarore del giardino. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho notato che ha voluto restringere il sorriso, richiudendo i suoi denti, leggermente sporgenti, tra le labbra. Anche io ho avuto i denti un po’ così, da piccola. Poi, crescendo, si sono allineati con gli altri e non si è più notato così tanto. Avrei voluto raccontarglielo, ma ho avuto il buon senso di tacere e di distogliere presto lo sguardo da quel suo adorabile particolare. Secondo me, però, lei lo ha capito. È da lì che è nata la nostra reciproca simpatia. Ed è stato da quel pomeriggio che non mi sono sentita più la piccola di casa, quella che Teresa si sforzava sempre di proteggere con i suoi ma sei sicura che ce la fai con quelle persiane? Non salire troppo in alto su quella scala! Poteva esserci qualcuno di più giovane di me, di più tenero di me, di più fragile di me. Non mi sono mai sentita così – cresciuta, credo – neanche quando sono passata dalla parte degli operatori, in istituto, per prendermi cura degli abbandonati, dei più deboli.

“È avanzata una fetta di pane e di marmellata, qui, sul fondo della pentola, ce n’è ancora un sacco. Ne vuoi?” mi ha detto Dora, quasi subito, come se si trovasse nell’agio di casa sua.

È facile sentirsi a casa propria, del resto, nella cucina di Teresa. Le altre stanze, invece, le pulisco, le spolvero, anzi, poi seguo le indicazioni ricevute e le oscuro. È solo dove ci sono i fornelli che la vita di Teresa e di tutte le persone che la circondano inizia a pulsare.

Sto facendo un ritratto, con i gessetti bianchi, adesso. Qui, sulla lavagna nera della stanza dei compiti, in istituto. Osservo quello che ho disegnato: mi piace. La polvere del gesso è ruvida e asciutta sulle mie dita. Mi chiedo se lo scorrere di questi minuscoli granelli potrebbe un giorno cancellare le mie impronte digitali. Sarebbe un modo per ricominciare davvero da zero. Gli orfani possono cominciare da zero, mi hanno raccontato. Ma era una bugia.

Una volta Teresa era malata. Io stavo seduta vicino al suo comodino. Lei dormiva e io ho lasciato che le mie dita scivolassero sotto il suo palmo, distendendo le sue, di dita, così nodose: i suoi polpastrelli erano lisci, come se il tempo avesse levigato le sue impronte. Come se avesse vissuto così tanto da esser pronta a ricominciare una nuova vita. O pronta per lasciar dissolvere per sempre quella che aveva vissuto. Poi ha riaperto gli occhi, io ho cercato una scusa per nascondere i miei pensieri. Lo faccio sempre, sì. Mi riesce più facile essere il giullare di corte. Anche quella volta ci ero riuscita: Teresa ha sorriso.

Sono andata via di tutta fretta, poi. Perché sapevo che sarebbe arrivata Laura.

Dora

Il fatto è. Ci si poteva parlare, con lei. I miei denti. Comunque, io ho scelto. Una sedia così comoda. Il mio nascondiglio. Pane. Una cosa che so solo io. Divento un uovo. Una schienuccia. Amicizia. Non dirlo a nessuno! Quanto è bello. Burro. Però mica lo so. Volevo capirlo, quel viso. Orchi e cantine.

 

Il fatto è che io l’ho capito subito.

Ecco, l’ho detto ancora. Non ci posso fare niente.

Mi viene proprio spontaneo questo benedetto il fatto è.

Dev’essere perché capisco che le cose stanno proprio in un certo modo, e non perché a me sembra così, o a chiunque altro, è proprio perché il fatto sta così, ecco. È presto spiegato, insomma.

Perché il fatto è, dicevo, che io l’ho capito subito che con lei, con Teresa, ci si poteva parlare. Se no non avrei finito la mia frase con una domanda. Tant’è che le ho detto: “Vero?” E il che lasciava intendere che avevo pur voglia di avere una risposta, da parte sua. Che mi importava di non averle rovinato il giardino: con il mio skateboard, intendo. Forse le ho spennato giusto un pochino il cespuglio di ortensie, quello nell’angolo.

Che poi, mi sa che l’hanno capito tutti che io ho paura ad andarci su questa tavoletta con sotto ‘ste rotelle diaboliche che rotolano, rotolano e poi, quando prendono velocità, e io comincio a sentire l’aria nei capelli sembra bello, ma mi si fa subito come un buco nella pancia e mi vengono quelle specie di vertigini e allora devo mettere giù un piede. E frenare. Poi mi giro di scatto per vedere se qualcuno mi ha vista fare questa cosa da paurosona. E per fortuna, fino a oggi non mi ha mai beccata nessuno. Almeno credo.

Però io ho trovato un mio modo di divertirmi con lo skate. Anche se posso farlo solo quando nessuno mi vede, perché mi sa che sembrerei troppo ridicola agli occhi degli altri. Agli occhi di Andrea, poi, non ne parliamo. Lui impenna, persino, con lo skate, ci va giù per le scale, poi fa ruotare la tavola con un colpo della caviglia e come ci riesce sempre io non lo so, però sterza e riprende con più velocità di prima. Beh, poco male. Perché io mi ci siedo, sullo skate. Sì, mi ci siedo, e con le mani spingo, spingo, e poi spingo, e le mani diventano come due piccoli remi o come le zampe palmate di un’anatra, che fa più ridere, lo so, ma il fatto è che è vero: si va veloci anche così. Allora prendo velocità. Se poi c’è un po’ di discesa, è fatta. Mi rannicchio tutta su me stessa, divento un uovo e penso che da dietro altro non si potrebbe vedere se non una schienuccia gobbuta mentre si gode il vento che finalmente, in un modo che piace anche a me, mi ributta indietro tutti i ricci. Poi però, quando mi fermo, e li tocco, capisco che il vento non è stato abbastanza per appiattirli come piacerebbero a me. Pazienza. Magari andando più forte, un giorno.

Comunque, il fatto è che con Teresa siamo diventate subito amiche. Perché a me è venuto spontaneo non scappar via dopo averle chiesto scusa. Non era la prima volta che entravo in quel giardino. Dietro alla sua casa c’è solo una piccola recinzione in cemento, un po’ franata. Dev’essere per quello che ho pensato che la casa fosse disabitata. Anche le persiane che danno sulla strada, sul davanti, sono sempre chiuse e lo fanno pensare.

Ma quel pomeriggio, quando Teresa mi ha sorpreso a guardare da sotto in su, cercando come una bimbetta di due anni le ciliegie a febbraio, ho notato che il giardino era attraversato da una stradina di beole e che quel serpentello di pietre conduceva a una breve scalinata. Dagli scalini si accede alla cucina di Teresa attraverso una grande porta di vetro.

In effetti, non ho pensato neanche per un istante che quella era pur sempre una persona sconosciuta. E io non sono certo una che dà confidenza a tutti! Ma non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello, ecco, che lei non la conoscevo e che avrei dovuto salutare e andarmene. A certe cose si pensa solo dopo.

Un po’ mi sentivo anche in colpa per averla disturbata. L’ho capito dal fatto che si stava pulendo le mani nel grembiule che dovevo averla interrotta. Poi un treno è passato e tutte e due abbiamo dovuto lasciare spazio al suo boato. Alle volte accadono cose più forti di noi, che ci interrompono.

“Ma no che non hai rovinato nulla, piccola!”

Ecco, mi è piaciuto da subito che un adulto non avesse nulla da ridire su di me e sulle cose che avevo fatto.

Che comunque, qualsiasi sia il motivo per cui brontolano gli altri, i grandi, intendo, a un certo punto, pazienza. Tanto io la mia decisione, quella che conta, l’ho già presa. E al momento giusto, la farò sapere al mondo.

“Io mi ricordo di te! Ti sono cresciuti i capelli dallo scorso anno!” mi ha detto Teresa.

“Sì, ma non sono diventati più lisci, come speravo…”

Allora lei mi ha sorriso e io, stranamente, non ho avuto l’istinto di ritirare subito i miei due dentoni davanti, per nasconderli nella bocca. Ho sentito che potevano anche rimanersene lì, a scavare ancora un po’ la pelle del labbro di sotto, a calcare su quelle piccole due fossette in cui, i miei denti, così lunghi, si accomodano ben volentieri. Dato che sono troppo lunghi, sì, lo so. Ho dodici anni, i capelli crespi e i denti che sparano, qui davanti.

“Che begli occhi hai, sono così azzurri che sembra di guardare il cielo!”

E poi questa frase, sì. La solita che sembrano riuscire a inventarsi tutti, penso per compensare la prima impressione un po’ conigliesca che sembrerà uscire dal mio muso. Ma detta da Teresa sembrava sincera. Dolce. Le persone fanno così fatica a essere dolci. Si difendono tutti. Però mica lo so perché, o da che, in fondo.

Allora mi sono avvicinata a lei. Sempre stringendo lo skate sotto l’ascella. Anche se avevo indosso una maglietta bianca e avevo paura di sporcarla di terra. Ma mi interessava capirla la sua faccia.

Io facevo dei passi e lei restava immobile, le sue mani sempre impegnate a rimescolarsi nel grembiule. Poi il grembiule è tornato al suo posto e io le ho visto bene le dita. Facevano uno strano zig-zag che partiva dal polso e proseguiva in un fascio di vene in rilievo, sotto una pelle sottile, morbida. Mi è sembrato potessero anche far paura ad altri quelle dita. Ma non a me.

“Vuoi entrare? Io mi chiamo Teresa, e tu? Ho appena finito di preparare la marmellata di limoni. Ne vuoi un po’?”

Se fossimo state in una fiaba, la vecchietta che avevo davanti si sarebbe trasformata in un orco cattivo, per legarmi, rinchiudermi in una qualche cantina puzzolente o farmi chissà che. Ma la realtà è sempre più noiosa di quello che sembra. Dev’essere per questo che a volte ci delude.

Fatto sta che dopo un minuto che parlavamo – e io le avevo chiesto, per carità, di non chiamarmi più bambina, o piccola, ma soltanto con il mio nome, Dora – era come se fossimo amiche da una vita.

A me i maschi non piacciono, sia chiaro. E neanche gli adulti. E anche con le femmine mica sempre ci vado d’accordo. Con quelli più piccoli, poi, non parliamone. Impossibile farci un discorso. Ma il fatto è che non avevo mai pensato che la soluzione potesse essere fare amicizia con una persona anziana. Che fosse un’estranea, ben inteso, e che quindi non sentisse la necessità di farti da nonna, tutta caramelle e raccomandazioni.

Quella volta non abbiamo fatto altro che parlare. Ci siamo sedute e abbiamo parlato. Le sue sedie sono comode. Sono ricoperte da cuscini a fiori, gialli e verdi, e l’imbottitura si rigonfia tutta a onde e resta attaccata allo schienale per via di due fettucce di cotone. Una si era slacciata quasi del tutto. Allora l’ho riannodata e Teresa mi ha guardata con gli occhi pieni di gratitudine. Poi ho visto che anche altre fascette penzolavano nel vuoto, molli. Le ho strette e infiocchettate per bene.

E dicevo, abbiamo parlato tanto. Di quanto il pane sia più buono tostato, per cominciare. Che se poi è ancora caldo ci puoi spalmare meglio il burro, perché è caldo e si scioglie, ovvio.

Comunque la marmellata l’aveva già sigillata tutta, nei barattoli di vetro, e quando ci siamo trovate, ciascuna con in mano il proprio pezzetto di pane croccante, ci siamo guardate in faccia e abbiamo avuto lo stesso pensiero. Così abbiamo passato una buona oretta a fare scarpetta, con il pane, direttamente nel pentolone di rame. Che bel colore che ha il rame. È come se fosse d’oro, ma c’è qualcosa di rosa, in più, nei suoi riflessi.

Le ho spiegato la tecnica con cui vado sullo skateboard. E lei l’ha trovata ingegnosa. Non ha mai riso di me. A un certo punto mi è sembrato quasi che volesse andarci pure lei! Allora le ho detto: “Vuoi provarci, Teresa? Te lo presto lo skate, se vuoi!”

“Sì, vorrei provarci, vorrei provarci davvero! Ma credo sarebbe poco prudente…”

Mi è dispiaciuto. Per lei che non poteva farlo, e per me stessa, che ero stata poco delicata, credo. Ma in quel momento non ho avuto nemmeno il tempo di sentirmi in difetto. Stavamo già parlando di altro, noi due.

Poi è arrivata Mirna. Era mercoledì, infatti. È così che sono diventati belli i mercoledì.

Teresa

La pancia di una casa. I fiori del maggiociondolo. Barattoli di vetro. Se la tavola è in disordine. Sento dei passi. Odore giallo, di zucchero e limoni caldi. Il rame balugina. Tutti i treni sferragliano. Amaro segreto. Capelli di bambina.

 

Il mio nome è Teresa.

La mia cucina è grande, ed è sempre aperta.

Al centro della stanza, c’è una grande porta finestra. È tutta vetro, è tutta luce.

Sono seduta. Ma ora mi alzo e poi, sì: vi dirò tutto. È tempo.

Oggi è il sedici di febbraio, vero? La primavera soffia, ampia, tiepida sui fiori del maggiociondolo.

Avete mai visto i fiori di un albero di maggiociondolo mentre il vento li fa vibrare? Se non vi è mai capitato, avete ancora almeno un motivo per continuare a vivere. Non è poco.

Quanto a me, io lo conosco bene il tremolio di quei fiori. Eppure questo miracolo si rinnova, ancora e ancora, davanti ai miei occhi. Ma non mi azzardo a chiedere perché, perché di nuovo. Coltivare amarezza sarebbe sciocco.

Ho novantaquattro anni e la primavera torna a pulsare sotto la pelle liscia dei miei polpastrelli.

Per certo, non merito tutta questa vita. Ma non è una questione di meriti il tempo concesso.

Ci sono molti barattoli, qualcuno anche rovesciato, sul mio tavolo. Essi aspettano, vuoti e trasparenti, di essere riempiti con ciò che ancora sobbolle nel mio bel pentolone di rame. Gocce di luce baluginano sulla sua superficie. Poi rimbalzano, tutto intorno e nei miei occhi.

C’è odore di zucchero nell’aria. È un odore caldo, e giallo, che si muove in piccoli vortici.

Salterella, l’aroma oleoso dei limoni, forma cerchietti concentrici, scivolando alla fine in piccoli risucchi. E poi sono sbuffi, che spandono per rilasciare, d’improvviso, questa poesia, queste carezze lievi, morbide.

Non c’è tregua, invece, per queste ginocchia che scricchiolano e per questa anziana donna che sono e che vaga nel suo moto perfetto e ormai perpetuo per l’ampia pancia di questa casa.

Non c’è pietà in questo ostinato proseguire.

Si invecchia, ecco tutto. E a invecchiare con i segreti conficcati nel petto si diventa gracili, patetiche macchiette rosa in cerca di ascolto, pur sapendo che le orecchie che avrebbero dovuto davvero sentire non possono farlo più.

La polpa della frutta si sfalda lenta, mentre la rimescolo. C’è ancora molta energia in questo polso, sapete?

Antonia, piccola bambina mia, tra poco tutto sarà pronto. Io raddrizzerò quei barattoli sul tavolo, li riempiremo e faremo scorta d’amore per l’inverno che ci attende. Allora accenderemo il camino, tosteremo fette di pane, prepareremo un tè, scuro e bollente. Poi spalmeremo il burro su quelle fette e le inonderemo della nostra marmellata. Mangeremo e parlare non servirà, perché saranno cose di cui il cuore non avrà più bisogno.

Antonia non c’è più. Antonia era la mia bambina.

Lo racconto a voi per ricordarlo a me stessa che mia figlia è morta. Che mia figlia è morta.

Che io l’ho seppellita, pur essendo più vecchia di lei.

Vi prego, però, non ditelo! Non dite quella cosa anche voi, non negatemi il diritto alle lacrime. Settantasei anni sono una buona età per morire, hanno canterellato tutti, credendo di consolarmi. E lei era malata, lo sai, Teresa. E tu sei sana e devi andare avanti.

Devo andare avanti, mi hanno detto. Ma fino a quando si può sorridere di un simile stornello? Lei era mia figlia e io voglio piangerla, voglio piangerla per tutti i giorni che mi restano e che a me paiono sempre più numerosi, e che si gonfiano al posto di contrarsi: ingrata, io.

Ecco, ho spento il fuoco. La superficie di questo liquido denso si alliscia. Le ultime gobbe scoppiano, poi si acquietano. Con il cucchiaio di legno increspo di nuovo tutto in un cerchio quasi prodigioso: vapori odorosi si liberano nell’aria.

I barattoli sono allineati, adesso. Prendo un mestolo. Ha un beccuccio sottile che mi aiuta ad accompagnare questa composta nei contenitori. Poi li richiuderò. Stringerò con forza, ve l’ho detto che ancora ce la posso ancora fare! Quindi li capovolgerò, così che la marmellata di limoni, ancora bollente, sterilizzi anche i coperchi. Le etichette sono pronte. Anche le piccole rondelle di stoffa, a quadretti, bianchi e verdi. E il nastro di iuta, con il quale farò un bel nodino. Le operazioni minute sono le più difficili per le mie dita.

Sento dei rumori. Provengono dal mio frutteto. Lascio ogni cosa sul piano di lavoro: sono passi di una persona, quelli, ed è gioia per me!

Se smetto di rimestare, tutto si solidifica, a strati, lungo le pareti della pentola. Ma non importa perché forse non sono più sola, adesso! Ed è bello. È bello anche se ancora non so di chi sia quel lento calpestio tra le foglie. Abbandono i miei fornelli. Attraverso la porta finestra e mi affaccio sulla piccola ringhiera della veranda.

Uno sferragliare di rotaie annuncia il treno delle cinque. Non vedo nessuno. C’è solo questo rumore, solo questo ritmo metallico. Tutti i treni sferragliano. Tutti i treni si fanno attendere. Poi si lasciano intravedere, da sinistra. Appaiono. Scintillano di velocità. I treni scompongono i capelli. Ti costringono a chiudere gli occhi e quando li riapri sono passati, non si sono fermati e tu puoi solo osservarli diventare una piccola cosa, nerastra, lontana.

Sì, che bello, un nuovo stropiccìo, lì, tra gli alberi! Non l’ho sognato, vedete! Ma… È di nuovo lei! Sono felice.

“È ancora presto per le ciliegie, piccola!” “Oh no, ti prego, non scappare. Non volevo spaventarti. Né tantomeno sgridarti…” “Ti prego, resta, bambina. Anche io le guardo, le guardo e le aspetto, sai? Anche a me sembra incredibile che quelle palline dure e verdi, possano diventare rosse, sugose. Ma dovremo aspettare luglio. Bisogna sempre aspettare luglio…”

“Scusi.” “Io pensavo… Me ne vado, mi scusi.”

“Puoi restare, se vuoi! Puoi restare, ti prego…”

Non ho sognato, non sto vaneggiando. È davvero una bambina, quella. Non la mia, certo. La mia aveva i capelli più rossicci, sapete.

Questa piccola in cerca di ciliegie, invece, ha i capelli lunghi, castani. Ricci. E mi fa sentire che io sono ancora parte di questo mondo e che può ancora esserci qualcosa di bello, per me, quaggiù.

“Non c’era un recinto e io sono… scivolata dentro. Sa, questo coso ha le rotelle sotto e io… non immaginavo fosse il suo giardino, mi scusi.” “In effetti dovevano essere pure di qualcuno questi alberi…”

“Qualche volta le ciliegie crescono spontaneamente, sai? Sicché si dice che sono selvatiche. Hanno un sapore più asprigno, ma ci si possono fare dei dolci… dolci così buoni…”

“Però lo skateboard l’ho sollevato, adesso, vede? L’ho messo qui, sotto il braccio, non ho rovinato nulla! Almeno credo. Vero?”

Dora. Mi dice di chiamarsi Dora, lei.

Storie di Angeli e di chi ci crede

Io non so se credo negli angeli. Ma credo nelle storie di chi ci crede.