Joker

Joker. Di tutto il film mi rimarrà per sempre impressa la scena del bacio di Joker alla vicina di casa (Joker sarà anche un violento, ma bacia le donne, e presumibilmente, poi, ci fa l’amore; almeno nelle sue allucinazioni. Accudisce teneramente una madre, è capace di empatia con i bambini e di affetto fraterno verso l’unico collega gentile). Sì, lui a un certo punto decide che bacerà quella donna e l’irruenza di quella scena è di una sensualità che stende, quale solo il piglio di un uomo zeppo di sex appeal (ma non era un emarginato dall’aspetto floscio e perdente?) può realizzare; una di quelle mosse in cui una donna, mentre accenna con il solo pensiero un timido ma no, ma che stai facendo, con tutto il resto del corpo sta concedendo il sì più grande della sua vita. Dicevo, quando Joker smette di essere seguito dai servizi sociali (perché la società è sempre dimentica dei disadattati, no?) e di prendere le medicine (che lo curavano o lo appannavano soltanto?) diventa se stesso, sfumature maligne comprese. Joker, allora, uccide. Da quel momento in avanti, quando subisce grosse ingiustizie (lo picchiano quasi tutti: quanti ceffoni dà la vita ai deboli, eh?) allora, lui, elimina il nemico. Spara. Accoltella, soffoca chi gli fa del male senza grandi remore, ormai diventato soltanto o bianco o nero, senza più compromesso. Ma, per contro, diventa fulgido nel bene: nella ricerca della verità sulla madre, per esempio. Però qualcosa, nella mia visione, stride, a tratti: questo attore è bravissimo, ma sottilmente, la sua bravura diventa ingombrante, e alla fine, sì: pedante. Non puoi prendertela con certe semplificazioni operate dalla storia raccontata, perché questo è un “fumetto”, una storia fantastica di supereroi, alla fine: parliamo di Joker, il cattivo in Batman, giusto? Solo che tutto è così drammatico che te ne scordi e allora, quando Joker fa il suo balletto di trasformazione definitiva in cattivo in quello squallido bagno pubblico, tu lo ammiri anche per quella sua capacità di stare nel personaggio e di renderlo in modo unico; però, dopo un po’, ti stufi di dire che bravo e pensi: siamo in un fumetto, in un film drammatico… o a teatro? E da lì cominci a provare insofferenza per tante altre semplificazioni: quanta poca pietà e comprensione, da parte sua, per la malattia mentale altrui. Mi sarei aspettata una resa dei conti, un accenno di dialogo con questa madre che fino a che punto aveva perso il bene dell’intelletto e dove, invece, ceduto alla seduzione del male? Non si saprà mai, un’occasione soffocata sotto quello stesso cuscino d’ospedale. Del resto, è anche un po’ giusto rimanere scioccati dalla cieca e umanissima violenza gratuita, in un film del genere. Un’altra scelta semplicistica (ma che pretendo, siamo a Gotham City): va bene il balletto artistico e ben assecondato dalla ricercata magrezza e scarnificazione del protagonista, ma davvero poi diventa ex abruto un figo irresistibile (o voi uomini eravate davvero convinti che un uomo maledettamente attraente avesse le fattezze di Brad Pitt in Troy?). Un’ultima faccenda grossolana: quella benedetta vicina di casa (è mai stata chiamata per nome da qualcuno?) ha il coraggio, e dico proprio il coraggio, di innamorarsi di uno come Arthur Fleck. Sì, non ci sta soltanto a letto, ma sostiene le aspirazioni artistiche di lui, non lo giudica mai con vuoti moralismi, lo accompagna nei luoghi del dolore e cosa ne ha in cambio? La scomparsa totale dalle scene del film.
Nelle foto che ho scelto, la trasformazione da debole figura repressa e prevaricata a persona decisa a trovarsi un proprio spazio nel mondo con un carisma e una lucidità senz’altro deviata, ma non incapace di intendere e volere. Del resto, sotto il trucco, un attore dalla travolgente sexitudine (o voi, nel Gladiatore, trovavate più intrigante il protagonista rispetto a quel gran cattivo dell’imperatore?). Ed ecco Joaquin Phoenix nel suo ripristinato splendore (mamma, quanto splende… mamma che fortunata quella vicina di casa! ) a ritirare il suo meritato premio.

Fidarsi di una sensazione

Fidarsi di una sensazione. Non avere il coraggio di chiamarla premonizione. Io, a gennaio, un mese prima dello scoppio della pandemia.

Sarà suggestione, eppure ripenso ad alcuni momenti, momenti precisi, prima che questo incubo scoppiasse, apparentemente normali ma graffiati da una malinconia sotterranea che mi pare di avvertire con chiarezza soltanto adesso.

Wrecked

Guardare Wrecked è una prova di coraggio.

Sì, perché ci vuole fegato a immedesimarsi (è inevitabile immedesimarsi nel protagonista, no?) in questo povero abbandonato da Dio dopo un incidente di cui non ricorda nulla e che l’ha piombato nel fitto di un bosco sterminato.

Quindi un mattino ti svegli così, gli gonfi e iniettati di sangue, una gamba spezzata e incastrata nelle lamiere di un’auto che non guidavi tu e… E niente, non ti ricordi nulla. Chi sei, chi non potresti essere mai. Come sei finito laggiù e chi diavolo sia il cadavere gonfio e livido che giace sul sedile posteriore della tua trappola di ferro. Fai uno sforzo, cerchi di liberarti.

Sei prigioniero.

Ravani nelle tasche del tuo più sfortunato (o più fortunato, ancora non si sa) compagno di sventura. Riesci ad acchiappare uno dei suoi documenti ma niente: la nebbia agli irti colli. Intanto cresce la sete, la fame, il dolore alla gamba impigliata nel cruscotto accartocciato su se stesso e poco conta se, nel frattempo, ti sei accorto che la radio continua a funzionare, e che il notiziario parla forse di te, di sicuro dell’auto che ostinatamente ti protegge almeno dalla pioggia.

La pioggia, un po’ d’acqua, finalmente, raccolta nell’incavo di un pezzo di plastica. Qualche animale ulula, laggiù. Tu hai recuperato una pistola da non sai dove, non diresti possa essere tua, ma a quanto pare, sai usarla per ricacciare una di quelle bestiacce, mentre mostra l’acquolina tra i canini senz’altro affilati. Sono anch’io un cattivo, allora? E quanto pulsa questa maledetta gamba che spurga sangue senza peraltro farmi svenire, solo piombandomi in sonni improvvisi dove l’incubo si vive al risveglio?

E non mi sento forse già abbastanza intrappolata, io, nella nuova vita che il Covid19 mi ha imposto? Non dovrei cercare di lasciarmi attraversare da altre emozioni? E io cosa farei in una situazione del genere? Proverei a salvarmi?

Ovvio. Ma fino a quando e quanto ci metterebbe la disperazione a prendere il sopravvento su di me? Chi sono, devo saperlo per capire se qualcuno potrà venire mai a cercarmi, se sono meritevole d’essere recuperato. Da dove peschiamo tenacia quando siamo nei guai fino al collo? La raccattiamo con la logica? La inseguiamo nei ricordi degli esempi cui abbiamo assistito? Macché, viene fuori dalla rabbia l’energia per non arrendersi, la sputiamo fuori insieme a un fragoroso vaffanculo, vita il nostro quartino di adrenalina necessario a prendere a spallate la portiera che ci tiene imprigionati come in una bara ben arieggiata, tra i vetri rotti. Liberi, finalmente.

Liberi di strisciare un metro più là, la gamba ancora attaccata a noi, non più zuppa di rosso ma ora soltanto bianca ed esangue. Liberi di vagare nel nulla di un bosco sconfinato, tutto uguale a sé stesso. Potevo farmela venire almeno un paio di giorni prima questa cattiveria, pensi, accarezzando una pistola che potrebbe risolvere in quattro e quattr’otto tutti i problemi. E lasciami almeno tirare fiato, mi sono appena liberata! È un primo passo, no? Oddio, cos’è? Un animale? Che razza di bestia… Ringhia? Ringhia di fame? Potrei farlo anch’io se non fosse per…

Mio Dio, grazie: si è accontentato del cadavere riverso sul sedile posteriore. Avrei potuto sparare, nel caso, ma il cuore in gola che ho avuto! I proiettili li ho ancora. Non li ho usati neanche per trivellare il farabutto che pure è arrivato fin qui e che mi ha guardato e che continuava a guardarmi mentre senza rivolgermi neanche una parola svuotava il bagagliaio, zeppo di quattrini. C’è stata una rapina, allora? Ho rapinato qualcuno? E lei chi è, adesso? È venuta a salvarmi? Dio, che bello, sì. Mi dà acqua, cibo. E certo tra poco mi porterà via di qui. Non lo fa subito, prima sta aspettando che io beva qualcosa e poi lo farà. Poi lo farà.

Possono molto le voci e le proiezioni della mente, no?

Strisci. Puoi strisciare e allora ti metti a farlo. Felci, foglie secche. Rami, muschio, terra, rovi. Trova un pezzo di stoffa per fasciarti le mani. Uno zaino dal quale sbuca un cellulare con un lumicino di carica. Nel bosco nessuna connessione. Mettilo via, magari più in là. Un tubetto di aspirine, le manderò giù a secco, ora meglio scappare, quella è una testa, una faccia sbranata. Scappa, non puoi: striscia!

Rovi, tronchi, pozze d’acqua. Più acqua, un fiume, la vita che ti ridà l’acqua, gli occhi almeno sciacquati in quella frescura. Se non ci fosse il mio cane a guidarmi, ora, il cane che avevo da bambino. La testa, sto perdendo la testa, accoccolati qui, cane mio. Dimmi chi è lei, perché ce l’ha con me. Le ho fatto del male? Sembra arrabbiata. C’entra con la rapina, le ho puntato contro una pistola? O le ho fatto del male in altri e ben peggiori modi prima, prima della rapida, nel bene che non ho saputo ricambiare?

Il film ruzzola davanti ai suoi spettatori, i significati non si disbrogliano, l’ansia cresce. Non reggo più questa solitudine, questo bosco in notturna, questa angoscia nel pensiero di cosa significhi morire da soli. Quante persone stanno morendo nella solitudine, in questi giorni? A cosa ti abbarbichi nella consapevolezza di essere solo in un momento che capisci essere l’ultimo? Torni a una sensazione, primitiva? Torni alla mamma? Ti raggomitoli nel ricordo del suo odore?

Adrien Brody striscia senza arrendersi per chilometri, casca in un fiume, si lascia trasportare dai flutti – saranno gelidi – ma ancora la morte lo sputa lontano, ad asciugarsi su una spiaggia, ad assaporare ancora una volta lo splendore di riscoprirsi vivo, nonostante tutto, che non sappiamo quando suonerà per davvero la nostra campana. Striscia, la gamba ancora attaccata, striscia, il sole acceca, per giorni, la pioggia, ancora, nella notte, il giubbotto, rubato a un cadavere, zuppo. Vedo un ciglio, forse un varco nella vegetazione, forse una strada, ci sono. Non ho più forze, non posso mollare proprio adesso, mi lascio rotolare, la gravità, la gravità mi aiuterà. Eccomi, arrivo. Un’auto accartocciata su se stessa. In mezzo al bosco. Nel nulla ancora quell’auto maledizione non è possibile non è possibile tutto è stato vano allora morirò non sono morto subito morirò adesso però che diavolo di senso ha. Sono ritornato al punto di partenza.

La vita a volte te lo combina questo scherzo, no? Di nuovo lo stesso sbaglio, di nuovo la stessa situazione e il rimprovero contro noi stessi, unici artefici di tanta involuzione, di tanti giri per riannodarci nuovamente su noi stessi. Inutilmente, nello spreco più sciocco del tempo. Non abbiamo più tempo, però: per quanti giorni possiamo vivere nell’inedia? Senza cibo, senza voci. Senza speranza. Cosa faccio? Ci riprovo comunque, a oltranza? Ci riprovo fino a quando ci saranno molecole di vitalità minima nel mio corpo? Quanti colpi sono avanzati nella pistola, quanto è lucida ancora la mente? Chi mi sta trascinando di nuovo via di qui? Il mio cane, il cane che avevo da bambino, il mio unico amico sincero.

Dove sta la nostra forza, la nostra bellezza, se non nella convinzione dello sguardo, nella nostra presenza ben piantata in noi stessi?

E anche quando ci riesce di sopravvivere, verso che cosa si torna, davvero?

Ecografia al cielo

Un’ecografia al cielo ne rivelerebbe il sesso: femmina.

Covid Selfie

Il volto semi coperto dalla mascherina e un paio di frasi di accompagnamento, come per dire foto ricordo, eccoci: abbiamo vissuto nel tempo della pandemia e tra qualche tempo, forse qualche anno, ci parrà buffo rivederci. Si guarda in camera come per guardare i noi stessi del futuro, gli occhi che sorridono da sopra la fasciatura che scherma i sorrisi, ma non la luce dei volti e quella capacità che abbiamo di andare avanti.

La filigrana dei fallimenti

Accettiamo anche di riuscire a farci poco. Accettiamo di avere sonno anche se è presto. Accettiamo, anzi, accogliamo ciò che sembra più modesto di quanto avremmo voluto. In controluce, c’è una filigrana.

Felicità, dove stai di casa?

Ma tu che insegui tanto la felicità, ma che cosa credi che sia, in fondo, la felicità?

Pensieri stellari: calpestii (im)possibili

Guardo questa foto. Penso: quale luogo potrebbe essere? Il fondo di un lago d’alta quota, in estate, il deserto, una vallata, magari americana, il Grand Canyon, lo scenario per un nuovo cartoon. Però no: questo posto si trova più lontano, più lontano dei crepacci montani, più lontano di un deserto, di un Colorado, di un paio di occhi stralunati di un Willy il Coyote a caccia del suo Bip Bip. Lontano, oltre i nostri possibili calpestii. Oltre la Terra, oltre un confine che oggi possiamo violare, provando vertigini, con l’illusione di toccare cose un tempo proibite: le stelle, il senso di un cosmo infinito, Dio. Un piede così altrove. Sembra terra, sembrano comuni sassi, comuni rilievi, comune polvere; invece è Marte. Possiamo andare così lontano, possiamo staccarci da noi stessi per qualche attimo, gongolare, sentendoci potenti. Anche se la gravità ci risucchia e ripiomba subito in noi stessi, ci proviamo sempre a fare quel piccolo salto. Piccolo, perché siamo piccoli. Gravi.

La verità, soltanto la verità

La verità totale è un atto di intimità. E non si può essere intimi con tutti.

Pensieri stellari: e quindi?

Le stelle esplodono nel vuoto intorno a noi e noi le guardiamo, ogni tanto, di striscio, non sapendo che farcene di tutta questa luce, di tutta questa meraviglia. Le stelle brillano e noi diciamo “E quindi?” Le stelle sono Dio, ma sono troppo grandi per noi.