Come faremo a baciarci

Come faremo a baciarci se quando ci infiliamo nei portoni la luce si accende a tradimento, con quei cosi di sensori! Aspetta, ferma: non respirare, appiattiamoci in quest’angolo. Magari poi si spegne e non si accorge più di noi…

Di argento e di vita

Ero a disagio solo con lei. Lei lo capì. Un polpo viola giaceva sconfitto sugli scogli neri, l’anima coriacea, sfilacciata.

Prese un’arancia. Ne svuotò l’anima. Riempì le sue spoglie di alici. Una di esse sembrava ancora pulsare di argento e di vita.

Alla mia Gallarate

E poi a Gallarate, un tempo, c’era una pescheria, in piazza della Libertà, dove ora c’è una gelateria. Ricordo l’odore del pesce, poi l’acquario scuro con le aragoste dentro, a lasciarsi osservare con guardinga inquietudine dai miei occhi bambini. Poi il resto, accanto al sacchetto, veniva appoggiato su un tappetino, a fianco della cassa; era di gomma, con tanti piccoli aculei nei quali scivolavano le monete, a non esser svelti. Mia madre ancorava i manici della busta al manubrio, io saltavo sul predellino posteriore della sua bicicletta e si tornava a casa. Per curvare, intorno alla fontana, sporgevamo entrambe il braccio, perché sulla strada ancora asfaltata circolavano le auto. C’era il sole, c’è sempre il sole in certi ricordi.

Triste e lieve

Poi in estate si andava dalle Suore Canossiane, in via Trombini. Da loro c’era anche una scuola elementare e una media, ma soltanto femminile, e io pensavo ci fosse qualcosa di triste e al tempo stesso di lieve in questa mancanza di maschi. Le loro aule erano più curate rispetto alle classi statali e le bambine indossavano un bel grembiule bianco. A pensarci, sembravamo ben più austere noi, in quel sacco nero che io odiavo, odiavo, odiavo. Le stanze sapevano di pongo, e di pulito, e nel cortile interno al chiostro, tutto a sanpietrini, il tempo era scandito dai rintocchi di una piccola campana. Ci davano una brioche, per merenda, nei giorni della normalità, un gelato in quelli della festa e una fetta d’anguria per sparar semini ovunque nei pomeriggi della felicità. Si sudava sempre, d’estate, fuori, nei giochi a squadre, nei tornei combattuti fino all’ultima molecola. Ci si metteva in fila per aspettare un turno, una palla, un via e intanto i capelli, appiccicati, arruffati, sfuggivano a elastici e mollette. Mentre si correva, convinte di poter arrivare chissà dove, i bracciali ci scintillavano sui polsi. Erano di plastica, e pieni d’acqua, e sembrava una gran magia che dentro fossero riusciti a infilarci tutte quelle pagliuzze brillanti. C’era un gran distributore di coca cola e di aranciata percorrendo un lungo corridoio che iniziava non ricordo più dove; occorreva un gettone per quella piccola bottiglietta di vetro e ci volevano cinquecento lire per acquistarlo dalla suora, all’ingresso. Poi c’erano quegli archi, sempre nel chiostro, chiusi da vetrate colorate e adesso aperti, a dare respiro, ed eleganza, barattati forse con un po’ di pudore.
Stanno ristrutturando nel convento che più di trent’anni fa ospitava le suore e le bambine e il ruzzolare scomposto e perfetto della loro gioia. Guardo i lavori in corso, apprezzo la volontà di rinnovare spazi e risorse dotate di storia. Poi la malinconia mi sguscia fuori un po’ a tradimento e io non riesco a trattenerla.

Posso accompagnarti

“Posso accompagnarti a casa io” le aveva detto.
“Abito lontano” gli aveva risposto.
“E allora andiamo lontano.”
“Che tipo che sei, tu! Grazie, però preferisco prendere i mezzi.”
“Non insisto. Posso camminare con te, fino alla fermata?”
“Sì, puoi. Finirà che mi sbaglierò, prima o poi, e mi scapperà di darti del tu anche in redazione.”
“Sbagliati pure, è bello sbagliare.”
Sì, puoi gli aveva detto quella volta dopo una giornata così dura e sentendosi, accettando quella breve scorta, libera e divertita.
Lui non aveva detto una parola, camminando. Una mano la teneva in tasca, l’altra a reggere quella valigetta sformata dai libri. Il suo loden svolazzava nel vento di una sera di fine febbraio.
Che cappotto da vecchio, aveva pensato lei. E poi: è intenso il profumo che porta. Di cosa sa? Cedro, legno? Muschio, tabacco, di cosa, sì, di cosa? Sentì che avrebbe voluto avvicinarsi al suo bavero per annusarlo. Incontrare il ruvido di quella barba d’argento. Quel desiderio la sorprese. Come potrebbe reagire, lui, se facessi una cosa del genere? Poi aveva deciso: lo faccio. Deciderò di lui in base a come si comporta.
Erano arrivati sulla banchina. I loro sguardi si perdevano per terra, nelle fughe del rivestimento puntinato del pavimento metropolitano. Marta aveva fatto un passo di troppo e ora superava la linea gialla. Lui aveva fissato il suo piede fuori posto, poi aveva alzato lo sguardo e le aveva sorriso. Senza dirle nulla, senza toccarla per invitarla a indietreggiare. Era stato così che era successo. Un passo indietro, per rimettere la gamba in sicurezza, poi un movimento come una piccola rotazione verso di lui. Il naso nel colletto del suo cappotto e poi lì, tra la camicia e la pelle del collo. Un respiro profondo. E lui, lui immobile. Attento, fermo. Forse con il fiato interrotto. Ma immobile. Marta aveva sentito il battito accelerarle e quando era salita sulla vettura e le porte avevano chiuso Paolo fuori dalla sua raggiungibilità, dalla sua toccabilità, il cuore aveva iniziato a sentirlo nella gola. Avrebbe voluto scendere, sì, scendere e corrergli incontro mentre lui la guardava con occhi che parevano pieni d’amore. Aveva pensato torno indietro, scendo alla prima fermata, faccio il giro, salgo sul treno che va dalla parte opposta. Gli corro incontro, lo raggiungo. Lo fermo per la spalla mentre sta ancora camminando, lungo il marciapiede, con quel suo stupido cappotto da vecchio e gli dico portami via, portami via da qui, portami a fare l’amore, voglio provare a fare l’amore con te. Invece non aveva fatto nulla di tutto questo. Si era seduta. Aveva imposto a se stessa di tranquillizzarsi, di decelerare i pensieri. Vuole soltanto portarmi a letto, non so perché sia così bravo a farmi sentire così. Così unica, così speciale. Non mi importa, vuole solo quello che vorrà da tutte quelle che vanno con lui per ovvie ragioni. Mica ci casco. Però potrei provare, pensò. È bello sbagliare, le aveva detto. Chissà per quanto tempo è rimasto a guardare il treno che mi portava via, aveva pensato, pure. E chissà perché ho la sensazione, semplicemente, che lui mi ami.

Ho visto un uomo

Ho visto un uomo. Oggi pomeriggio, in pieno centro. Prima l’ho avvertito alle mie spalle, poi ho iniziato a scorgerlo, lateralmente. Ero al telefono, avevo fretta. Lui camminava, si avvicinava e in qualche modo già chiedeva la mia attenzione. Parlavo con il mio bambino di cose dolci, avevo un treno da prendere. Mi sono voltata. Un movimento, il mio, che è stato solo un accenno. Quanto è bastato per vedere un indice levarsi, come per dire scusi, io… Non sono più riuscita a seguire quel che sentivo dall’altro capo del telefono. Lui barcollava, ormai mi era chiaro. Dalla mia bocca iniziavano a uscire parole di difesa, sillabe che messe insieme avrebbero dovuto significare qualcosa come un no, non mi serve, mi dispiace. Non ho bisogno di nulla, non posso aiutarla. Nel frattempo, però, le mie palpebre si spalancano, qualcosa mi atterrisce. Nei suoi occhi, invece, stupore. Sono io a spaventare lui? Indietreggia. Ma fatica a coordinare i movimenti necessari per farlo. Non sembra pericoloso. Io impietrisco, lui inizia a cercare delle parole. Mi parla in inglese, ma non è inglese. Forse non ha idea dell’effetto che può fare il suo aspetto. Mi chiede indicazioni per l’ospedale. È sudato. Io gliele do e nel frattempo, definitivamente, lo guardo bene. Ha due potenti curve viola sotto gli occhi, gonfi, lucidi. Sembra l’esito di un ematoma. Ho la sensazione che ogni suo sforzo sia teso soltanto a mantenere la concentrazione che potrà servirgli a raggiungere un posto sicuro. Decido che non posso fidarmi del tutto di questa figura sinistra. Lascio che si avvii verso l’ospedale, che poi è la stessa via che devo percorrere anche io. Lo curo da lontano. Un ultimo particolare mi inquieta, è la sua mano: sembra esser stata spezzata in più punti, le dita si disarticolano per seguire la linea di un improbabile zig zag. Vedo una macchina della polizia, segnalo il tutto a un agente. Lo seguiranno, gli chiederanno i documenti. Lui faticherà a rispondere. Mi giro un’ultima volta. L’hanno fatto salire in macchina, avanzano verso l’ingresso dell’ospedale che ormai è alle mie spalle. Spero di avere aiutato quell’uomo. E ora vorrei sapere la sua storia, avrei voluto entrare al pronto soccorso, seguirlo, capire, conoscere i suoi perché. Ha avuto un incidente? Lo hanno picchiato? Veniva da lontano, magari scappando da qualcosa o da qualcuno? Lo avranno curato, poi? Ma soprattutto, devo ammetterlo, era la sua storia che avrei voluto conoscere per poter raccontare. Non so a chi. Ma non importa, credo sia proprio un istinto, questo mio.

Siamo storie che si incrociano

Oggi ho visto un uomo. Sedeva alla guida, sulla sua auto. Io anche, in direzione opposta alla sua. Il suo viso, i lineamenti liquefatti da una passata battaglia con il fuoco. La sua mano sinistra, non compromessa nella forma, mi pareva, ma nel colore, senz’altro, e non più rosa, ma grigia, spenta. Siamo storie che si incrociano. Siamo tutti reduci da un fronte.

Frana

E poi questa sera ho visto una donna. Un paio di ballerine sottili nelle quali i piedi scoppiavano di esagerazione, di pelle e di carne. Le cosce forti, che camminando, franavano l’una sull’altra, e causavano quel dondolio lento, cadenzato, a tutta la figura. Un viso come un uovo: rosa, ovale eppure tondo. Due linee nere, diritte e spesse, a convergere sul naso, per farne sopracciglia come diagonali nette. Non sapevo dire se il suo sguardo fosse più accigliato, o più triste. Né capivo da dove traesse la motivazione per avanzare, a ogni passo. Forse è coraggio, il suo, ho azzardato. O forse in lei abita uno spirito troppo stanco per continuare a interrogarsi. Poi ho pensato che in fondo, negli altri, non vediamo altro che specchi.

Sassolini

Sassolini

La senti, questa parola, come bisbiglia
Come sassolini, che cincischiano, sotto le scarpe
Tu cammini e i sassolini piovono, sotto i passi, sotto i pensieri
I pensieri che si azzuffano, ti sembra nella testa, ma in realtà tutti dentro al tuo cuore
E allora cammino, un passo e un altro ancora
E ti vengo a trovare
Mentre i sassolini cincischiano, sotto le scarpe
fanno questo bisbiglio, lo senti anche tu?
Poi d’improvviso tacciono ed eccoti, tu sorridi
Sorridi sempre, da questa foto, non potresti che sorridere e io non penso che sorridi per forza, penso che si sorride tutti, lassù
La senti questa parola, come bisbiglia
Come sassolini, che cincischiano, sotto le scarpe
E invece non son sassi, ma parole, che piovono sottili, tra le mie labbra
La senti, questa parola, come bisbiglia
Come un sassolino, che cincischia, sotto le scarpe
E adesso mi punge, non rotola più
La senti, questa parola, come bisbiglia
Come galleggia, a mezz’aria, provandoci ancora
ad arrivare da te, ma sempre si scioglie, su queste labbra, e poi a terra, tra questi sassolini, che mi portano a te, che sorridi, che sorridi per forza, che sorridi sempre, da questa foto, che bisbiglia la tua felicità.

Questo testo è una canzone che aspetta un cantante e la sua musica.

Gli altri, nei bar

Mi hanno sempre dato un grande disagio i bar. Nei bar ci si entra per un momento di conforto. Un caffè, un dolce. Poi però ci incontri degli estranei. Con i loro odori e quel modo così diverso dal tuo di far tintinnare il cucchiaino nella tazza. Gli altri strappano la bustina dello zucchero, lasciano granelli bianchi ovunque, sul bancone. Fanno la stessa cosa che fai tu: sorseggiano qualcosa di scuro, lasciano svolazzare le briciole della brioche con il respiro, mentre la mordono. Fanno la stessa cosa che fai tu, ma non ti parlano, non ti sorridono. A volte ti guardano. Allora tu controlli di non aver macchie sul soprabito. Paghi, te ne vai. Dici arrivederci a chi ti ha toccato la mano per ritirare le tue monete, e subito l’ha ritratta; intanto hai già calato gli occhiali scuri, ostili, sul naso.