Articoli

Ritratto di Debora

Lei si chiama Debora Bionda

Mentana, prendi me!

 

“Mentana, prendi me!” scrive Debora Bionda, forse scherzosamente, o forse neanche più di tanto, in uno dei suoi più recenti post di Facebook.

E forse, a poter fare due parole, strette strette in un orecchio, a Enrico nazionale, verrebbe proprio voglia di dirglielo: “…Ma che sai aspettando?”

No, non lo dico soltanto perché di cose scritte da lei, Debora Bionda, milanese d’adozione, classe 1973, ne ho lette moltissime, avendo avuto la fortuna di condividere per due anni il medesimo banco presso la Scuola di scrittura più rigorosa d’Italia, quella diretta da Raul Montanari, e no, non lo dico nemmeno perché ogni volta vedo quei suoi occhi di zaffiro pronti a sbriciolare un video e resto di stucco. Lo dico perché in questa professionista io intuisco un tocco che merita di essere raccontato. Un tocco, sì: un modo di osservare e di stare tra la gente, con curiosità, pacatezza, garbo e una saggia indulgenza che è già esso stesso un biglietto da visita.

Decido di farle questa intervista per capire come si arriva a fare il lavoro, anzi, i lavori che fa oggi, provenendo dal Gotha della finanza d’alto livello. E come si decide di innamorarsi di una penna a sfavore di una calcolatrice, una laurea in Bocconi nel cassetto. Perché è questo che è successo a questa giornalista, conduttrice, docente in comunicazione d’impresa che ha smesso di fare magie con i numeri per dedicarsi al mondo dell’editoria, dopo aver collezionato incursioni importanti nel regno del food, lo stesso che sembra parlare soltanto di cibo, e che invece scoperchia un mondo fatto di feroci strategie di marketing e business stellari.

Debora Bionda in sala regia

Parto dunque con le mie domande a nastro, infischiandomene del fatto siano a volte bizzarre. Astrusità che non scompongono minimamente la mia interlocutrice, del resto, mentre non riesco a non partire dal suo passato di trentenne all’apice di una carriera fatta di uomini decisi e poca incertezza, quella della finanza.

Debora Bionda, presentatrice costante dei libri di Fabrizio Carcano

Quando eri giovanissima, che idea avevi del lavoro?

Il lavoro per me è sempre coinciso con un’idea forte di libertà. Libertà economica, in primis, visto che essa ha il potere di tradursi direttamente in libertà personale. Un concetto che ti appare chiaro da giovanissima quando vieni da una famiglia molto semplice, quando il gusto amaro delle cose cui devi rinunciare per mancanza di risorse hai dovuto saggiarlo fino a non poterlo dimenticare più. Non parlo naturalmente delle cose essenziali, che non mi sono mai mai mancate, ma proprio e ancor più per questo, l’impossibilità di potermi concedere un’esperienza mi è sempre sembrato un modo di vivere soffocato.

Oggi il lavoro è per me molte altre cose. Per questo occorre fare delle scelte, decidere a che cosa attribuire le proprie nuove priorità. Oggi direi che il lavoro è per me un modo di muoversi nel mondo.

Sperimentarti in più contesti, come oggi ti trovi a fare, è più stimolante o più faticoso?

Faticoso.

Pochi tentennamenti, grande sincerità, direi…

È inutile che io ci giri intorno: la mia indole, unita a un bisogno mai pago di nuovi stimoli, mi porta a sentirmi stretta in contesti e ruoli definiti, rigidi. Ho lavorato come operatore di Borsa per grandi società finanziarie, come conduttrice televisiva. Oggi anche come docente presso un istituto internazionale di comunicazione. Le notti passate a studiate per essere certa di tenere lezioni all’avanguardia nei contenuti, non le conto più. Si tratta ogni volta di rimettermi in gioco, acquisire nuove competenze, attingere a risorse diverse.

…bellissimo, no?

(Con il solo sguardo, mi impone un suo realismo) Impegnativo, questo sì.

Quanta possibilità abbiamo, attraverso il lavoro, di crescere come persone?

Tanta, se ci mettiamo in discussione. Poca se rimaniamo sempre e solo sulle nostre posizioni. Proprio per la flessibilità che ho dovuto sviluppare, mi trovo spesso a dover mettere alla prova i miei limiti e a conoscere aspetti di me che altrimenti, forse, non avrei conosciuto. Avere mille dubbi, anche su me stessa, come donna e come professionista, mi permette di crescere.

Ci sono persone che il destino pare si diverta a mettere sul nostro cammino per intralciarci, sminuirci, impoverirci. Reagire nel modo corretto, sul lavoro, non è facile. Tu come la vedi?

Il problema di queste persone, del quale probabilmente non hanno nemmeno consapevolezza, è uno solo: l’arroganza.

Ma che cosa significa essere arroganti sul lavoro? Voglio dire, immagino tu non ti riferisca alla comune maleducazione…

Certo che no. Essere arroganti quando si lavora è piuttosto un problema di staticità.

Nel senso di… ottusità?

Voglio continuare a chiamarla così: staticità. È un concetto meno accusatorio, che mi permette di comprendere la natura del problema. Come può esserci evoluzione se c’è staticità?

Il lavoro è un obiettivo di business o un’occasione di cooperazione sociale?

Ciascuna mansione che siamo chiamati a svolgere ci inserisce necessariamente in un contesto sociale. Lavoriamo con gli altri e per gli altri. Il nostro lavoro è influenzato da chi ci circonda e ha ricadute continue sul mondo. Tutte le volte che ho sottovalutato la dimensione sociale nel lavoro ho fatto danni.