E tu, rifaresti la stessa scuola?

Io dico: buone notizie. Lo dico con cognizione, dovendomi ricredere, persino. Lo dico, soprattutto, con il cuore prudente di mamma di un ragazzino di 13 anni che proprio in questi mesi è impegnato in una prima e importantissima scelta: quella della scuola superiore.

Alzi la mano chi non cambierebbe il suo percorso scolastico, potendo tornare indietro. Io, la alzo per prima. Ripenso alla tredicenne che sono stata e ai percorsi di orientamento che era possibile seguire nel 1989: i professori tuonavano le loro sentenze e spesso erano lacrime. Ricordo compagni di classe molto promettenti non essere giudicati all’altezza di un liceo. Scientifico? Sguardo accigliato. Classico? Opzione quasi innominabile. Gli studenti considerati intelligenti erano solo quelli brillanti in matematica. Le attitudini artistiche, un inutile vezzo. La predisposizione musicale, un virtuosismo per pochi. Pedagogia, psicologia, sociologia erano territori leziosi, non contemplati dai licei e lasciati alla certosina pazienza delle maestre che sarebbero uscite dalle Magistrali. Oggi si chiamano Liceo delle Scienze Umane, un’opzione di studio superiore che è riuscita nel tempo ad ammantarsi del rispetto che merita. Qualche retaggio resta: il latino, il greco, la matematica sono ancora oggi considerati potentemente formanti per lo sforzo ragionativo che implicano. Come se dedicarsi allo studio di una lingua viva non avesse un potere immersivo tra gli strati più profondi delle meningi. Come se la programmazione informatica fosse una partita ai videogame incapace di incidere sulla nostra forma mentis.

Ai miei tempi, non lo davano neanche questo semplice libretto, chiaro e completo, con le materie ben elencate, istituto per istituto. Lì dentro ci sono tutte le scelte possibili e il perimetro squadrato di quelle pagine, in qualche modo, conforta.

Si andava per sentito dire. In base al percorso, ai timori o alle aspirazioni dei genitori. Così – ed eccomi qui – ti ritrovavi al classico credendo – errore! – di esserti lasciata alle spalle l’algebra o di poterti dedicare alla letteratura, la tua fidata zona di comfort o magari anche – azzardi persino, nei tuoi più impavidi pensieri – alla scrittura. Macché, la narrativa è proprio un’altra cosa, a scuola, e sa di antologia o di libri sorbiti a forza tra i titoli appioppati per le vacanze estive. Persino nelle facoltà di Lettere, che scelsi poi, la scrittura narrativa era un territorio inesplorato, una cosa troppo “americana” per noi.

Certo, la riforma Gentile che già nel 1923 aveva suddiviso i destini degli scolari tra i percorsi professionalizzanti, gli istituti tecnici e gli elitari licei, fa sentire ancora oggi il suo peso. Dal liceo arriva anche adesso un’eco sofferta, fatte di gobbe leopardiane chine sopra sudatissime scrivanie.

E poi c’è il nuovo smalto delle scuole tecniche: loro, la risposta a quel mercato del lavoro così insoddisfatto, i bisogni delle imprese in eterna sete di lavoratori pronti all’uso, come se la scuola non fosse il luogo della prima impostazione, della cassetta degli attrezzi, come se quel benedetto diplomino potesse essere già sporco di grasso come le mani di un meccanico. Come se i giovani non avessero bisogno di un anziano, appena varcata la soglia del nuovo posto di lavoro. Di una guida, un mentore; di ore di pratica, di errori collezionati sperimentando come necessario prezzo del diventare bravi in qualcosa. Così anche il liceo corre ai ripari e si professionalizza. Lo “scollamento” tra scuola e mondo del lavoro non lo vogliamo, no. Lo scientifico ci prova e diventa allora anche Liceo Scientifico dello Sport, o Liceo Scientifico delle Scienze Applicate.

E ancora: Liceo Scientifico del Made in Italy. Chi vuole, abbandona il latino per entrare nel laboratorio di chimica, o studia una lingua in più per relazionarsi con i turisti di domani, innamorati del brand “Italia”. Di cui andiamo orgogliosissimi. Roba che ci potremmo vivere di solo turismo, noi. E invece… macché. Sempre allo Scientifico, ci sono le “curve sanitarie” per chi già si orienta verso la medicina, la fisioterapia, le scienze infermieristiche. Invitiamo i ragazzi a mettere un piede nella Sanità che li attende. Che il cuore li assista!

Al classico, la lingua straniera non si sacrifica più dopo il biennio perché abbiamo capito che sì, le lingue che si parlano nel mondo sono importanti quanto l’aoristo. Amen.

Poi ci sono gli ITE, gli Istituti Tecnico Economici – e non chiamateli più Ragioneria, boomer che altro non siete! Ah, loro sì: il compromesso più brillante tra istituto tecnico e liceo, con un occhio già strizzato al marketing e alla finanza, che se le guardi bene, le nuove scuole superiori italiane, hanno già il pavoneggiante profumo dell’università.

Scegliere, specializzarsi, idee chiare, ragazzi, idee chiare: non possiamo permetterci di stare su pagine di nessuna utilità. Senso pratico, signori, tutto il resto è hobby. Improduttivo, monetariamente infruttuoso.

Ed eccoli, allora, gli istituti tecnici mentre fanno il loro ingresso trionfale nella super guida che tutto mette in luce.

L’Alberghiero, per esempio, che non forma più – guai ai voi – gli chef o i camerieri di domani, ma la scuola che ha fatto anche lui: Carlo Cracco. Attimi di religioso silenzio ed è subito Masterchef e il sogno di dirigere un ristorante in una Galleria Vittorio Emanuele illuminata da mille stelle Michelin… Ah, il potere racconterino dei media!

Loro, insomma, gli istituti tecnici, l’orgoglio di poter dire: i nostri studenti sono corteggiati dagli imprenditori già dal penultimo anno. E come dar loro torto! Tra questi, ci sono gli ISIS, gli ex ITIS, che noi liceali guardavamo dall’alto al basso, con la spocchia di vezzose educande. Le aule come officine, a scuola con la tuta. Ma anche edifici nei quali entra la tecnologia del nostro oggi e dai quali esci comprendendo l’algoritmo del futuro. Impressionano le loro aule di informatica, i computer in fila come una centrale di controllo con tutte quelle teste di diplomandi che danno sfoggio di sé agli Open Day come batterie di umani pronti a pigiare i pulsanti della Nasa. Mio figlio vuole entrare qui, non ne vuole sapere di liceo. Prende voti alti in matematica – tutto la mamma, ehm… – fa disegni tecnici che non mi capacito di come possano uscire da quelle mani non ancora adulte e sventola il suo patentino ICDL come fosse il distintivo di una temutissima banda di hacker. E del resto, sulle pagine di letteratura, nulla, non si avvertono pulsazioni, i temi sono per lui una tortura di forzata introspezione e lo studio dell’arte non sposta nemmeno un granello della montagna che freme nel masticare di intelligenza artificiale. Scuola tecnica è il consiglio unanime dei suoi professori. Come se non ci fosse tutto il resto della vita per scoprire passioni e scovar anfratti per nuovi stupori.

“Mamma, ma devo fare ancora italiano per altri 5 anni?”

“Sì, figlio mio: non puoi saltare in un balzello dalla terza media al Politecnico!”

È una scelta difficile e tu che sei un genitore, ma anche un tifoso e un coach e una mamma e un papà che vorrebbe condividere i frutti della propria esperienza, a volte maturati a caro prezzo, non puoi far altro che stare alla finestra e veder crescere, con i suoi tempi, quella fragile e verdissima pianticella che si flette al primo soffio di vento. Ma che forse, un giorno, diverrà quercia. Buone notizie, perciò.

Rosa? Che ne dite del blu ottanio? E del blu di Prussia?

È quotidianità, per chi fa il mio mestiere, imbattersi e fermarsi un attimo a riflettere su quelle espressioni ricorrenti, usate dai media, in particolare per titolare news e articoli. “Al via” è un tipico esempio di come con poche battute si possa indicare l’avvio di un progetto. In effetti la tastiera ne ha un consumo minimo: a-l v-i-a. Sei pigiate, spazi inclusi. Tutta un’altra vita rispetto a un incipit come “Parte oggi l’iniziativa…”. Sì, sì; occorre essere smart, al giorno d’oggi, no?

Vi riporto ora un’altra comune occorrenza, quasi un fatto di costume, ormai. “Si tinge di rosa…” Ecco: si parla magari di un convegno, un concorso, una ricerca e per il solo fatto che le donne compaiono in scena in gran numero, il #pinkwashing fa inesorabile capolino, onnipresente e ormai piuttosto odiosetto. È un modo breve per indicare le cose, e abbiamo capito: ma che noia! Quotidiano Mi-Tomorrow*, titolo: “La memoria di Milano si tinge di rosa: una statua per Margherita Hack”. Argomento del pezzo: “Prima dello scorso settembre sul territorio di Milano non esisteva alcun monumento dedicato ad una donna. L’amministrazione ha voluto correre ai ripari dedicando una statua a Cristina di Belgiojoso, ma le “quota rosa” (e ci risiamo! ndr) nel campo della memoria urbanistica non si fermano qui. Il prossimo monumento sarà dedicato all’astrofisica Margherita Hack”.

Personalmente, non ho nulla contro il rosa, anzi. Però trovo quantomeno petulante che per parlare di quanto le donne possano contribuire a una causa si faccia ricorso a quello che alla fine resta un cliché: femmina, fiocco rosa.

Se pensate a Margherita Hack, tingetela di blu questa Milano delle donne straordinarie. Di blu ottanio. O di blu di Prussia, come quello del cielo dove lei ha rivolto mente e cuore per tutta la vita, ben lontana da abbreviazioni e cliché.

Vi lascio un passaggio su come lei, #MargheritaHack, parlava dei colori. E una sua ricetta. L’avreste mai detto? 🙂

“Mi sono sempre dedicata al giardinaggio, anche se questo significava semplicemente sputare noccioli per piantare le piante: sembrerà incredibile, ma con questa raffinata tecnica botanica mi sono nati un albero di ciliegie, uno di pesche e un nespolo. Ci sono anche due alberi di fico: è curioso che possano crescere così a nord. Credo che a ciò non sia estraneo il microclima di Trieste, che è protetta dalle montagne ed è affacciata sul mare. In un angolo coltivo il mio radicchio selvatico. Lo mangio in insalata con aglio, olio e aceto ed è uno dei miei piatti preferiti. Ha integrato la rucola, che prima cresceva nello stesso posto.

Ci piacciono i colori, e così oltre le rose Tatjana ha piantato molti fiori. Ci sono i cespugli di iris viola, il gelsomino, che fiorisce a primavera ed è profumatissimo, i peperoncini rossi e gialli che creano una bellissima macchia cromatica, la forsizia, color giallo zolfo, allegra, che fiorisce alla fine dell’inverno, e le begonie. Durante l’inverno c’è una strana pianta, di cui non ricordo mai il nome, che fa dei batuffoli bianchi simili al cotone, così durante tutte le stagioni c’è sempre qualche fiore. Poi c’è un arbusto di rosmarino e l‘albero del diospero, che è un nome decisamente più bello di “cachi”!, che non fa fiori ma in autunno si ricopre di frutti arancioni.

Tratto da: “Hack! Come io vedo il mondo”. Di Margherita Hack.

*https://www.mitomorrow.it/online/ultime/milano-statua-margherita-hack/

La bocca non è

La bocca non è il colore. La bocca non è la forma, o la consistenza, o la morbidità. La bocca è il tuo tentennare, e il ricrederti, e il tornare. Ancora e ancora una volta.

Opera di Antonio Molino (particolare): La bouche en rose

L’anno nuovo

L’anno nuovo inizia. Ma tu non sai niente di lui. Niente.

Anche a voi capita, vero?

Anche a voi capita di pensare a come sarà quando, uscendo di casa, non riuscirete più a vedere una sola persona certamente più vecchia di voi, vero?

I vecchi cassetti, mille vani della memoria

A volte curioso tra gli oggetti e i mobili in vendita di una pagina dedicata all’usato. Soprattutto, i cassetti. I vecchi archivi, i mille vani, ogni piccolo scomparto un’opzione di creatività. E questi ripiani di una vecchia merceria che mi prende il cuore con così tanta malinconia. In quante mercerie sono entrata mano nella mano con mia madre, il tintinnio delle scatole di bottoni ammonticchiate l’una sull’altra, tutte, tutte le gradazioni del blu; l’odore di filato, di acrilico e di polvere.

Le favole, lo sai

Qualche volta sono brani di canzoni o motivetti, qualche altra storielle che riaffiorano, di quelle che puoi aver sentito soltanto da bambina. Ti svegli ed eccole, appiccicate da una qualche parte dentro di te e te la raccontano ancora la storia di chissà quale personaggio che non riusciva più a tenerselo in pancia quel segreto, e allora andava in un grande giardino, scavava una buca – con le mani, che la foga era tanta – ci buttava dentro il suo segreto e poi richiudeva tutto, spaziato e pago di uno sfogo. Il giorno dopo, perché c’è sempre un giorno nuovo che arriva, una notte trascorsa a far maturare le cose, mille fiori cantavano in coro il gran segreto: “Il re ha le orecchie da asino, il re ha le orecchie da asino: le tiene nascoste sotto la corona!” È immaginarsi già il sudore, ghiacciato, della fragile spia.

L’amore è un aquilone

L’amore passionale è mutevole. Si innalza, brilla, si espande e poi contrae. Trascolora, si assottiglia, o rotolando a valle come una palla di neve, si ingigantisce aggiungendo strati, e nuove pagine, e infinite sfumature al suo percorso. Nasce e può crescere. Come morire subito. Ma anche quando il suo destino abbia il respiro corto, qualcosa ti rimane impigliato per sempre, lassù. Come un aquilone in perpetuo ostaggio tra le fronde più fitte.

Autumn in

Autumn in Loano.

Se Einstein crede in Dio

Se è Einstein a credere in Dio.