“Posso accompagnarti a casa io” le aveva detto.
“Abito lontano” gli aveva risposto.
“E allora andiamo lontano.”
“Che tipo che sei, tu! Grazie, però preferisco prendere i mezzi.”
“Non insisto. Posso camminare con te, fino alla fermata?”
“Sì, puoi. Finirà che mi sbaglierò, prima o poi, e mi scapperà di darti del tu anche in redazione.”
“Sbagliati pure, è bello sbagliare.”
Sì, puoi gli aveva detto quella volta dopo una giornata così dura e sentendosi, accettando quella breve scorta, libera e divertita.
Lui non aveva detto una parola, camminando. Una mano la teneva in tasca, l’altra a reggere quella valigetta sformata dai libri. Il suo loden svolazzava nel vento di una sera di fine febbraio.
Che cappotto da vecchio, aveva pensato lei. E poi: è intenso il profumo che porta. Di cosa sa? Cedro, legno? Muschio, tabacco, di cosa, sì, di cosa? Sentì che avrebbe voluto avvicinarsi al suo bavero per annusarlo. Incontrare il ruvido di quella barba d’argento. Quel desiderio la sorprese. Come potrebbe reagire, lui, se facessi una cosa del genere? Poi aveva deciso: lo faccio. Deciderò di lui in base a come si comporta.
Erano arrivati sulla banchina. I loro sguardi si perdevano per terra, nelle fughe del rivestimento puntinato del pavimento metropolitano. Marta aveva fatto un passo di troppo e ora superava la linea gialla. Lui aveva fissato il suo piede fuori posto, poi aveva alzato lo sguardo e le aveva sorriso. Senza dirle nulla, senza toccarla per invitarla a indietreggiare. Era stato così che era successo. Un passo indietro, per rimettere la gamba in sicurezza, poi un movimento come una piccola rotazione verso di lui. Il naso nel colletto del suo cappotto e poi lì, tra la camicia e la pelle del collo. Un respiro profondo. E lui, lui immobile. Attento, fermo. Forse con il fiato interrotto. Ma immobile. Marta aveva sentito il battito accelerarle e quando era salita sulla vettura e le porte avevano chiuso Paolo fuori dalla sua raggiungibilità, dalla sua toccabilità, il cuore aveva iniziato a sentirlo nella gola. Avrebbe voluto scendere, sì, scendere e corrergli incontro mentre lui la guardava con occhi che parevano pieni d’amore. Aveva pensato torno indietro, scendo alla prima fermata, faccio il giro, salgo sul treno che va dalla parte opposta. Gli corro incontro, lo raggiungo. Lo fermo per la spalla mentre sta ancora camminando, lungo il marciapiede, con quel suo stupido cappotto da vecchio e gli dico portami via, portami via da qui, portami a fare l’amore, voglio provare a fare l’amore con te. Invece non aveva fatto nulla di tutto questo. Si era seduta. Aveva imposto a se stessa di tranquillizzarsi, di decelerare i pensieri. Vuole soltanto portarmi a letto, non so perché sia così bravo a farmi sentire così. Così unica, così speciale. Non mi importa, vuole solo quello che vorrà da tutte quelle che vanno con lui per ovvie ragioni. Mica ci casco. Però potrei provare, pensò. È bello sbagliare, le aveva detto. Chissà per quanto tempo è rimasto a guardare il treno che mi portava via, aveva pensato, pure. E chissà perché ho la sensazione, semplicemente, che lui mi ami.