Ritratto di Daniele

E non ce la si fa davvero a vederti in quel corpo, che vien subito spontaneo giudicare eccessivo, a non pensare che sei morto proprio perché hai esagerato. Non ce la si fa, anche se non dovremmo, perché chi non ti conosce non sa nulla di te. Non sappiamo se tu abbia esagerato in qualcosa, se il tuo sbaglio sia stata la troppa ambizione. Sappiamo che ventitré anni sono pochissimi, per la miseria, per andarsene. E a me, che pure non ti conoscevo, fa dolcezza il tuo sorriso. Così tanta che ti immagino, mentre ti alleni, e provi a sfidare i tuoi limiti, e fai sgranare gli occhi ammirati dei bimbi che ti avranno spesso guardato come si guarda un supereroe dei fumetti, di quelli giusti, di quelli che combattono sempre il male.
Dal desiderio di voler rendere il nostro corpo migliore ci siamo passati tutti, tutti. E il body building promette ai corpi il potere di una matita capace di ridisegnarci, più forti, più belli, più grandi, più al riparo dalla sofferenza. Questo lo so, ci sono passata anche io. Ciao, Daniele.

Ritratto di Liliana

Quanto peso porta sulle spalle questa donna. Non solo per tutto il Male che ha dovuto subire. Ma perché sembra che la vita non le possa donare tregua e voglia darle vita natural durante il compito di ricordare a tutti che il Male non muore mai, che sempre dobbiamo difenderci da esso. Che tenerezza mi fa mentre prende sotto braccio quel ragazzo della scorta come potrebbe fare con un nipote. E lui a proteggerla come fosse un ranuncolo e non la roccia che è diventata.
Non dimenticherò mai uno dei suoi racconti, quando, bambina, le hanno reciso un ascesso al braccio con un coltello, così, a mente sana, e una prigioniera a regalarle una fetta di carota per cercare di farla sopravvivere. Per farla arrivare anche a me, che ora guardo questa foto e penso ai ranuncoli e alle rocce.

Ritratto di Michela

Ti penso. A te, che finisci a terra. Un colpo duro. Il cuore in gola, la bocca che asciuga. Carponi odorare il suolo. Ma poi ti volgi, supina, a guardare ancora, almeno, ancora le stelle.

A Michela che mi ha detto che lei l’ha vista tante volte la lacrima del morente scendere dall’occhio, sulla guancia, all’ultimo.

A Michela che mi ha suggerito la musica giusta, una volta, in un momento così blu.

A Michela che cerca le stelle anche quando la vita la mette KO.

A Michela che guarisce. A Michela che scrive. A Michela che guarisce perché scrive.

A Michela che non si arrende.

Ritratto del Comandante Alfa

Oggi ho conosciuto quest’uomo.

Non ho potuto vederlo in viso perché era coperto, così come vi appare nell’immagine che pubblico e che ho preso dal web.

Avrei potuto fare una foto con lui, ma per pudore non l’ho fatto. Però ho potuto stringergli la mano e guardarlo negli occhi.

Lui è il Comandante Alfa.

Il Comandante Alfa è stato tra i fondatori del Gis, il Gruppo di Intervento Speciale dell’Arma dei Carabinieri per missioni segrete ad alto rischio: terrorismo, liberazioni di ostaggi, cattura dei più pericolosi criminali, in Italia e all’estero. Vivere sapendo che nel giro di mezz’ora puoi partire per una destinazione ignota il cui scopo ti verrà rivelato solo all’ultimo con l’unica certezza che sarà spaventoso: questa è la vita che non ti appartiene più quando lavori in questo sistema.

L’ho conosciuto perché oggi ha parlato davanti a tantissimi ragazzi delle scuole medie e del liceo, portando il suo esempio di uomo al servizio del bene. L’azienda per cui lavoro è stata sponsor di questa iniziativa, motivo per cui ho dovuto reggere l’imbarazzo di dire due parole introduttive prima di lui, ma per fortuna, prima che facesse l’entrata trionfale che meritava di godersi. Questo signore è stato impegnato in missioni per il mantenimento della pace in Afghanistan, Iraq, Bosnia. Nassiriya.

Ha raccontato di quando si è adoperato nella liberazione di Cesare Casella – due anni di prigionia incatenato in una buca di terra – e di quando ha tratto in salvo un’altra bambina, decidendo per l’occasione di contravvenire alla ferrea regola dell’obbligo di indossare il mefisto. “Volevo mostrarle il mio volto, farle capire che erano arrivati i buoni.” “Certo, io ti aspettavo” gli ha risposto la piccola con fermo candore. Il Comandante si commuove sotto il tessuto elastico che gli scherma la bocca.

Poi racconta di quando, da giovanissimo carabiniere, chiede di poter essere impiegato in azioni più toste, ma gli viene negato: è ancora il tempo dell’irruenza sconsiderata che gli fa rovesciare la scrivania del suo superiore per la rabbia del no ricevuto. È l’ultimo sbaglio da testa calda, racconta.

Poi la sua strada diventa un continuo agire di sagacia per trovare il modo di convogliare al meglio un temperamento potente, di quelli fatti per schiacciare il male, il tallone di Gesù sul serpente della tentazione maligna nel Giardino dei Getsemani.

Io non ho avuto il coraggio di chiedergli una foto, ma ho avuto quello di fargli una domanda. Ne vado fiera, sia per aver raccolto il coraggio necessario a porre un interrogativo così intimo a un uomo del genere, in mezzo a un pubblico di adolescenti traboccanti di ammirazione e domande, sia per la ricchezza che ho portato a casa dalla sua risposta. Gli parlavo e la sala taceva: da quell’angolo nel quale non tutti mi potevano vedere, la mia voce doveva sembrare sconosciuta ma adulta. Il Comandante mi guardava dalla fessura del suo passamontagna. Le mie parole si snocciolavano lievi eppure necessariamente gravi, i suoi occhi si facevano seri e al tempo stesso rispettosi. Parlavo e lui mi diceva con lo sguardo io non ho paura, nella mia coscienza, qualsiasi sia il quesito e il tribunale davanti al quale verrò posto; e se anche avessi paura non scapperei, fosse l’ultima prova della mia vita. Persone così sono abituate a sapere che ciò che stanno facendo potrebbe essere l’atto finale e il loro modo di andare incontro al destino è fermo tanto quanto spaventoso.

Mentre parlavo, me lo immaginavo muoversi nel buio dell’Aspromonte calabro, una svolta dietro un albero, cento nascondigli noti solo al nemico. E gli spari e qualcuno è caduto, hanno capito, non abbiamo i soldi, è una pioggia di proiettili e di fuoco, si muore. Io parlo, comunque, parlo pentendomi del mio coraggio, parlo sentendo di non essere in grado di sostenere quello sguardo duro. Ma intanto me ne nutro, intanto capisco nel suo esempio come si guarda in faccia la vita.

È a uomini che hanno toccato il diavolo che bisogna chiedere chi sia Dio.

“Lei ha visto il male da vicino così tante volte nella sua vita, senza perdere mai la motivazione per affrontarlo in ogni nuova occasione. E dopo aver visto questo male in faccia, è cambiata la sua idea di Dio?” Che cosa avrebbe potuto rispondermi un uomo di questo tipo? Forse avevo fatto una domanda ingenua a un uomo che ha avuto così tante volte modo di sentirsi grande, potente, capace. Gli importerà di Dio? Forse potrebbe dire che Dio gli è un concetto estraneo, che il suo impegno è dedicato a questa terra, dove Dio non è mai intervenuto? O che Dio è questione superflua, o inconsistente? “No” mi risponde. Pausa intensa. Pausa voluta. “No, non è mai cambiata la mia idea di Dio. Se non avessi pregato prima di certe missioni, se non avessi raccolto in me risorse e pensieri, trovando con questo anche molte soluzioni, io non ce l’avrei fatta. Dio mi ha sempre dato la forza.”


L’incontro è finito, il Comandante ha ascoltato le domande buffe dei più piccoli (“Ma neanche quando sei in casa tua puoi toglierti la maschera?”) e quelle di un liceale arrabbiato con una certa retorica della celebrazione degli eroi. Il Comandante lo ascolta, si mette in discussione, dà la sua risposta, poi ritorna interessato sul suo interlocutore: “E tu invece che cosa ne pensi?”

Il tempo è finito, i ragazzini si accalcano. Una campanella suona. Lo sciame si dissolve. Il capitano si alza.

Butta in fuori il petto, le spalle, trovo la sua camminata virile, un filo baldanzosa. Faccio il conto dei suoi anni, venticinque più dei miei, sessantotto anni e carisma da vendere. Chissà quante donne avrà fatto innamorare, penso, certa della mia stima orientativa. Forse ci vuole anche un po’ di pienezza di sé per scegliere un mestiere del genere. Vorrei vedere le donne nei Gis, dice anche. Non c’è nulla che anche loro non potrebbero fare. Mia moglie è stata mia complice, mia moglie mi ha aiutato ad andare ad affrontare il mondo, facendomi sentire che ai nostri figli avrebbe provveduto lei. È stata la loro scelta. Complice, è la parola che sceglie.


Il preside della scuola mi ringrazia per la domanda. È bello sapere che c’è chi pensa che il male vada combattuto anche se questo non vorrà dire estirparlo per sempre. Il male appartiene all’umanità. Come Dio, sembrerebbe dirmi oggi la vita.

Ritratto di Caterina

In una puntata di X Factor, prima o poi, ci siamo inciampati tutti. Sia che il nostro intento fosse quello di scoprire nuove proposte musicali, sia che fossimo attratti da questa narrazione della ricerca del talento, così zeppo di emozioni, lacrime, sogni coronati (pochi) e infranti (molti), tutti ricordiamo almeno una storia. Sì, non una voce, non un cantante divenuto poi più o meno famoso, ma proprio una storia, scritta con tutte quelle cose che chi prova a salire su di un palco porta con sé; perché un artista è fatto non soltanto di buona tecnicità, ma anche di un modo di stare sul palco, con una propria verità, e ancora di magneticità e di quella dote che lo porta a creare una sintonia con il pubblico.

Io ricordo perfettamente l’esordio di Caterina Cropelli, anzi: la storia di Caterina. Anno X Factor 2016. Jeans, maglietta e pelle bianca, capelli biondo naturale, anzi naturalissimo, come poi tutto il resto, di lei. Una fragilità nell’adolescenza (chi non ne ha avute?) superata grazie alla musica. Una fragilità che aveva a che fare con il cibo. “Fino a quando non ho capito che tutto questo andava a indebolire la mia voce, perché non mangiare avrebbe spento anche questa parte di me.” Quando si nutre una passione, nel cuore, nella testa, a quella passione ci si aggrappa per farsi traghettare, magari non lontano, ma almeno fuori dalla tempesta. E quel giorno, per Caterina, il sole è proprio esploso nel cielo insieme agli applausi, non solo di tutti i giudici del blasonato talent (quei mitici quattro sì) ma anche di tutti gli spettatori, in piedi, in ovazione, per lei. Caterina si commuove, dice grazie, gusta il sapore di quel riscatto, ma non concede troppo spazio all’ego: la sua cifra, del resto, non sborda mai oltre la nitidezza di uno stile cristallino e di una voce fresca. “Le tue note entrano nella testa” le dice Arisa.

Che per Caterina il gusto di cantare non si misuri soltanto in base alla popolarità raggiunta, lo capisci da ogni cosa di lei: da come usa dalla voce, dai testi che scrive, ma soprattutto da alcune sue frasi che durante la nostra intervista mi rimangono impresse: “Ma tu ti rendi conto di che responsabilità?!” mi dice commentando la scelta di una ragazza che aveva deciso di dichiarare il proprio amore al suo lui usando le parole di una sua canzone. Gli artisti entrano nella vita delle persone, ne smuovono riflessioni, affetti, scelte – mi spiega: devi metterci il cuore, perciò.

Le parole di Caterina, ricette per l’armonia dell’anima

(Dal singolo 02)

“Ti sei mai chiesto chi sei e quanto ossigeno serve per restare in apnea se ti volessi nascondere?”: quante volte abbiamo desiderato il dono della trasparenza? A quante feste abbiamo partecipato sentendoci fuori posto senza sapere bene chi dovrebbe essere più opportuno diventare?

“Spacci potenziale perché non lo sai usare”: a quanti succede di avere una percezione confusa delle proprie capacità finendo per millantare soltanto intuizioni e rinunciando a prendersi lo spazio per coltivarsi, anche soltanto davanti a se stessi?

“Vedessi con il cuore sarei soprannaturale”: si fa un gran parlare di anima e del fatto che l’essenziale sia invisibile agli occhi.

Caterina” è l’album di esordio di Caterina Cropelli: oltre 100mila visualizzazioni per il video del singolo “Duemilacredici”. Il disco (Fiabamusic/Artist First) ha debuttato nella top ten dei dischi più venduti in Italia su iTunes ed è acquistabile su smarturl.it/caterina.

Ritratto di Manuelita

Lei si chiama Manuelita Maggio

Viaggio A/R nella giornata di una comunicatrice

 

Intervisto Manuelita Maggio – classe 1964 (lo scrivo con la certezza che sarà orgogliosa di dichiarare i suoi anni) – con un grande entusiasmo che mi prude sulle dita, desiderose di farne questo ritratto. E di renderle giustizia, in un certo senso, riconoscendole i suoi tanti meriti professionali e anche, qui lo dico e non me ne pento, né sento di perderne in oggettività, l’affetto che ha saputo trasmettermi in questi anni discorrendo così tante volte di lavoro, letteratura, politica. Manuelita è l’unica persona, peraltro, della quale mi soffermo a leggere i post, su Facebook, dedicati ora a questo, ora a quel politico: nelle sue parole trovo il buonsenso, l’anticonformismo, la capacità di mantenere uno sguardo ironico su ciò che ci circonda senza mai sconfinare nel cinismo.

Ed eccola entrare subito nel vivo dell’argomento. Le prime parole che usa mi colpiscono. “…persone che decidono di avere fiducia in te e di affidarti il loro sacrosanto lavoro.” Sacrosanto, dice. Mica in un altro modo, definisce il lavoro altrui. Perché affidare a una comunicatrice, a una persona, cioè, che dovrebbe avere il compito di far sapere a più gente possibile che tu hai fatto una certa cosa – un libro, un album, un oggetto di design, non importa, sempre di un prodotto di uno sforzo creativo stiamo parlando – è una scelta importante. È un po’ come mettere in mano un bimbo in fasce a qualcuno di estraneo. Non è semplice. Ti devi fidare, e gli occhi, nel frattempo, non li chiudi mai. Occorre che quella persona, che possiamo continuare a chiamare comunicatrice, o pierre, come si usa a Milano, dove Manuelita vive, comprenda per prima il messaggio contenuto in ciò di cui andrà a trattare in un comunicato stampa. E se sono varie le faccende che promuove nelle redazioni dei giornali, negli eventi, lungo le tappe di una mostra, serve che abbia cultura, sensibilità, voglia di incontrare le persone, tante persone che si muovono nel linguaggio di un settore, e magari fra gli accenti di molte città.

Io Manuelita Maggio l’ho vista lavorare spesso. Sagace, pungente, svelta ed empatica. In breve, una con cui si fa alla svelta a entrare in sintonia, a intendersi. Ma non è tutta una questione di praticità. Perché da un certo punto in avanti, diventa un piacere cercarla, chiedere il suo confronto e portarne a casa un gran conforto, se mi si concede il gioco di allitterazione. Ecco come si consolida il rapporto con una persona che vorresti sempre nel tuo giro.

Tu sei una libera professionista, questo vuol dire avere la capacità di afferrare molto in fretta i contorni di una situazione, le aspettative di persone sempre nuove, il buono di ogni contesto. Io penso sia molto difficile quello che fai, e tu?

Non è facile, ma non ho voglia di dire che dipende dal fatto di esserci portata. Perché non sarebbe sufficiente. Le parole magiche, qui, sono concentrazione, velocità, connessione. Serve imparare a svilupparle nel tempo.

Insomma, la capacità di mettere a frutto una situazione? Ma non è dispersivo, in termini di energie, trovarsi a farlo ogni volta con persone diverse, a differenza di quello che può succedere in un ufficio?

È stata una mia scelta precisa quella di non concentrarmi in unico settore e di lavorare in più ambiti che vanno dal design all’editoria, alla musica, il teatro, lo sport. Così, come prima cosa, non rischio di annoiarmi.

E come seconda?

Le soddisfazioni arrivano nel mettere in collegamento tra loro professionisti e occasioni. Da qualche parte ho letto una frase, credo attribuita a David Bowie, nella quale mi sono ritrovata molto e che diceva più o meno così: “Quando sai fare molto bene qualcosa al punto che diventa facile, non farla più.” Ecco, sarebbe comodo fare sempre le stesse cose, mettere l’esperienza e le conoscenze acquisite al primo posto, avere delle regole precise fissate negli anni, ma questa comodità certamente ti nega la possibilità di sperimentare e imparare, due cose a cui non voglio rinunciare.

Quando devi comunicare qualcosa, devi fare dunque centro nel suo sistema valoriale, e devi pensare: se questo progetto fosse stato mio, che cosa vorrei che arrivasse alla gente?

Per comunicare qualcosa bisogna innanzitutto conoscerla, studiarla, scoprire i lati positivi e negativi, esaltare i primi ed essere consci dei secondi. Poi, bisogna innamorarsi di ogni progetto in modo diverso, per un periodo seppur breve: esso deve far parte di te, devi capire che cosa arriva a te, cosa invece non arriva, che cosa ti sta dando in modo immediato e in che punto fatica a trasmettere pensiero. Poi, sulla base di queste sensazioni, studiare come farlo arrivare agli altri.

Manuelita Maggio, PR per Forlì Four Design

A volte il giornalista cui stai chiedendo di scrivere un pezzo su ciò che stai promuovendo diventa una specie di avversario da convincere affinché conceda spazio, tempo.

Tra me e il pubblico c’è un filtro che si chiama giornalista ed è giusto che ci sia. Se se da un lato, quindi, hai a che fare con qualcuno di potenzialmente interessato a ciò che gli stai proponendo sulla base di quelli che sono gli interessi della testata per cui lavora, dall’altro lui (o lei) percepisce perfettamente quanto tu credi in quello che gli stai proponendo. E proprio da questa energia decide se lasciarsi coinvolgere o meno.

Hai detto coinvolgere, non convincere.

Sì, non ho detto bene?

Hai detto benissimo. Ma continuiamo. Da quello che comprendo, occorre costruire un ponte tra mittente e destinatario. Dai, ora però lasciamo perdere la semiotica…

L’hai tirata in ballo tu.

Giusto…

(Ride.)

Insomma, dai: ti paio retorica se dico che in questo mestiere, alla fin fine, devi metterci un po’ il cuore? Allora ti chiedo: una buona pierre non è volte, e forse prima di ogni altra cosa, un mentore?

Guarda, (e già la sento che si mette sul pratico, che stringe per arrivare al dunque, e ci scommetto, per fare centro) certamente possiamo rendere il mondo un posto migliore se scegliamo di comunicare progetti che hanno un valore sociale ed ecologico, che in qualche modo fanno riflettere, aiutano a comprendere e conoscere. Io sono un po’ incosciente o forse coraggiosa, non accetto di lavorare su progetti a cui io non riesco ad attribuire un valore, su un libro che ritengo pessimo, uno spettacolo o un evento banale, un prodotto che non ha nulla di innovativo.

Ecco, io credo sia fondamentale che i rapporti debbano essere basati sull’onestà, il rispetto, l’educazione. E se tu ci metti questo, in qualche modo arrivi agli altri e migliori un pezzettino del loro mondo. È in questa logica che io mi prendo cura dei miei clienti, ascoltandoli e consigliandoli. Sì, in questo senso potrei usare la parola che mi suggerisci tu: mentore.

Manuelita, splendida nonna in bluejeans

Senti, per finire mi parli di quella laurea in architettura che hai nel cassetto?

Nel cassetto non certo perché sono pentita d’averla presa o perché, come fanno in molti, mi perdo a pensare che avrei potuto studiare questo o quell’altro. Lascia perdere, scrivici quest’altra cosa nell’intervista: scrivi che per un mondo migliore ci vogliono persone che considerano il lavoro un’occasione di crescita, scambio, conoscenza, di relazioni serene. Conosco gente che conta le ore per guadagnarsi la fine della giornata, per arrivare al weekend; non è un bel mondo il mondo in cui ci sono persone che vivono il lavoro come una

sofferenza. Anche se questo, spesso, non dipende da loro.

Fatto.

Ritratto di Debora

Lei si chiama Debora Bionda

Mentana, prendi me!

 

“Mentana, prendi me!” scrive Debora Bionda, forse scherzosamente, o forse neanche più di tanto, in uno dei suoi più recenti post di Facebook.

E forse, a poter fare due parole, strette strette in un orecchio, a Enrico nazionale, verrebbe proprio voglia di dirglielo: “…Ma che sai aspettando?”

No, non lo dico soltanto perché di cose scritte da lei, Debora Bionda, milanese d’adozione, classe 1973, ne ho lette moltissime, avendo avuto la fortuna di condividere per due anni il medesimo banco presso la Scuola di scrittura più rigorosa d’Italia, quella diretta da Raul Montanari, e no, non lo dico nemmeno perché ogni volta vedo quei suoi occhi di zaffiro pronti a sbriciolare un video e resto di stucco. Lo dico perché in questa professionista io intuisco un tocco che merita di essere raccontato. Un tocco, sì: un modo di osservare e di stare tra la gente, con curiosità, pacatezza, garbo e una saggia indulgenza che è già esso stesso un biglietto da visita.

Decido di farle questa intervista per capire come si arriva a fare il lavoro, anzi, i lavori che fa oggi, provenendo dal Gotha della finanza d’alto livello. E come si decide di innamorarsi di una penna a sfavore di una calcolatrice, una laurea in Bocconi nel cassetto. Perché è questo che è successo a questa giornalista, conduttrice, docente in comunicazione d’impresa che ha smesso di fare magie con i numeri per dedicarsi al mondo dell’editoria, dopo aver collezionato incursioni importanti nel regno del food, lo stesso che sembra parlare soltanto di cibo, e che invece scoperchia un mondo fatto di feroci strategie di marketing e business stellari.

Debora Bionda in sala regia

Parto dunque con le mie domande a nastro, infischiandomene del fatto siano a volte bizzarre. Astrusità che non scompongono minimamente la mia interlocutrice, del resto, mentre non riesco a non partire dal suo passato di trentenne all’apice di una carriera fatta di uomini decisi e poca incertezza, quella della finanza.

Debora Bionda, presentatrice costante dei libri di Fabrizio Carcano

Quando eri giovanissima, che idea avevi del lavoro?

Il lavoro per me è sempre coinciso con un’idea forte di libertà. Libertà economica, in primis, visto che essa ha il potere di tradursi direttamente in libertà personale. Un concetto che ti appare chiaro da giovanissima quando vieni da una famiglia molto semplice, quando il gusto amaro delle cose cui devi rinunciare per mancanza di risorse hai dovuto saggiarlo fino a non poterlo dimenticare più. Non parlo naturalmente delle cose essenziali, che non mi sono mai mai mancate, ma proprio e ancor più per questo, l’impossibilità di potermi concedere un’esperienza mi è sempre sembrato un modo di vivere soffocato.

Oggi il lavoro è per me molte altre cose. Per questo occorre fare delle scelte, decidere a che cosa attribuire le proprie nuove priorità. Oggi direi che il lavoro è per me un modo di muoversi nel mondo.

Sperimentarti in più contesti, come oggi ti trovi a fare, è più stimolante o più faticoso?

Faticoso.

Pochi tentennamenti, grande sincerità, direi…

È inutile che io ci giri intorno: la mia indole, unita a un bisogno mai pago di nuovi stimoli, mi porta a sentirmi stretta in contesti e ruoli definiti, rigidi. Ho lavorato come operatore di Borsa per grandi società finanziarie, come conduttrice televisiva. Oggi anche come docente presso un istituto internazionale di comunicazione. Le notti passate a studiate per essere certa di tenere lezioni all’avanguardia nei contenuti, non le conto più. Si tratta ogni volta di rimettermi in gioco, acquisire nuove competenze, attingere a risorse diverse.

…bellissimo, no?

(Con il solo sguardo, mi impone un suo realismo) Impegnativo, questo sì.

Quanta possibilità abbiamo, attraverso il lavoro, di crescere come persone?

Tanta, se ci mettiamo in discussione. Poca se rimaniamo sempre e solo sulle nostre posizioni. Proprio per la flessibilità che ho dovuto sviluppare, mi trovo spesso a dover mettere alla prova i miei limiti e a conoscere aspetti di me che altrimenti, forse, non avrei conosciuto. Avere mille dubbi, anche su me stessa, come donna e come professionista, mi permette di crescere.

Ci sono persone che il destino pare si diverta a mettere sul nostro cammino per intralciarci, sminuirci, impoverirci. Reagire nel modo corretto, sul lavoro, non è facile. Tu come la vedi?

Il problema di queste persone, del quale probabilmente non hanno nemmeno consapevolezza, è uno solo: l’arroganza.

Ma che cosa significa essere arroganti sul lavoro? Voglio dire, immagino tu non ti riferisca alla comune maleducazione…

Certo che no. Essere arroganti quando si lavora è piuttosto un problema di staticità.

Nel senso di… ottusità?

Voglio continuare a chiamarla così: staticità. È un concetto meno accusatorio, che mi permette di comprendere la natura del problema. Come può esserci evoluzione se c’è staticità?

Il lavoro è un obiettivo di business o un’occasione di cooperazione sociale?

Ciascuna mansione che siamo chiamati a svolgere ci inserisce necessariamente in un contesto sociale. Lavoriamo con gli altri e per gli altri. Il nostro lavoro è influenzato da chi ci circonda e ha ricadute continue sul mondo. Tutte le volte che ho sottovalutato la dimensione sociale nel lavoro ho fatto danni.