Ritratto di Manuelita

Lei si chiama Manuelita Maggio

Viaggio A/R nella giornata di una comunicatrice

 

Intervisto Manuelita Maggio – classe 1964 (lo scrivo con la certezza che sarà orgogliosa di dichiarare i suoi anni) – con un grande entusiasmo che mi prude sulle dita, desiderose di farne questo ritratto. E di renderle giustizia, in un certo senso, riconoscendole i suoi tanti meriti professionali e anche, qui lo dico e non me ne pento, né sento di perderne in oggettività, l’affetto che ha saputo trasmettermi in questi anni discorrendo così tante volte di lavoro, letteratura, politica. Manuelita è l’unica persona, peraltro, della quale mi soffermo a leggere i post, su Facebook, dedicati ora a questo, ora a quel politico: nelle sue parole trovo il buonsenso, l’anticonformismo, la capacità di mantenere uno sguardo ironico su ciò che ci circonda senza mai sconfinare nel cinismo.

Ed eccola entrare subito nel vivo dell’argomento. Le prime parole che usa mi colpiscono. “…persone che decidono di avere fiducia in te e di affidarti il loro sacrosanto lavoro.” Sacrosanto, dice. Mica in un altro modo, definisce il lavoro altrui. Perché affidare a una comunicatrice, a una persona, cioè, che dovrebbe avere il compito di far sapere a più gente possibile che tu hai fatto una certa cosa – un libro, un album, un oggetto di design, non importa, sempre di un prodotto di uno sforzo creativo stiamo parlando – è una scelta importante. È un po’ come mettere in mano un bimbo in fasce a qualcuno di estraneo. Non è semplice. Ti devi fidare, e gli occhi, nel frattempo, non li chiudi mai. Occorre che quella persona, che possiamo continuare a chiamare comunicatrice, o pierre, come si usa a Milano, dove Manuelita vive, comprenda per prima il messaggio contenuto in ciò di cui andrà a trattare in un comunicato stampa. E se sono varie le faccende che promuove nelle redazioni dei giornali, negli eventi, lungo le tappe di una mostra, serve che abbia cultura, sensibilità, voglia di incontrare le persone, tante persone che si muovono nel linguaggio di un settore, e magari fra gli accenti di molte città.

Io Manuelita Maggio l’ho vista lavorare spesso. Sagace, pungente, svelta ed empatica. In breve, una con cui si fa alla svelta a entrare in sintonia, a intendersi. Ma non è tutta una questione di praticità. Perché da un certo punto in avanti, diventa un piacere cercarla, chiedere il suo confronto e portarne a casa un gran conforto, se mi si concede il gioco di allitterazione. Ecco come si consolida il rapporto con una persona che vorresti sempre nel tuo giro.

Tu sei una libera professionista, questo vuol dire avere la capacità di afferrare molto in fretta i contorni di una situazione, le aspettative di persone sempre nuove, il buono di ogni contesto. Io penso sia molto difficile quello che fai, e tu?

Non è facile, ma non ho voglia di dire che dipende dal fatto di esserci portata. Perché non sarebbe sufficiente. Le parole magiche, qui, sono concentrazione, velocità, connessione. Serve imparare a svilupparle nel tempo.

Insomma, la capacità di mettere a frutto una situazione? Ma non è dispersivo, in termini di energie, trovarsi a farlo ogni volta con persone diverse, a differenza di quello che può succedere in un ufficio?

È stata una mia scelta precisa quella di non concentrarmi in unico settore e di lavorare in più ambiti che vanno dal design all’editoria, alla musica, il teatro, lo sport. Così, come prima cosa, non rischio di annoiarmi.

E come seconda?

Le soddisfazioni arrivano nel mettere in collegamento tra loro professionisti e occasioni. Da qualche parte ho letto una frase, credo attribuita a David Bowie, nella quale mi sono ritrovata molto e che diceva più o meno così: “Quando sai fare molto bene qualcosa al punto che diventa facile, non farla più.” Ecco, sarebbe comodo fare sempre le stesse cose, mettere l’esperienza e le conoscenze acquisite al primo posto, avere delle regole precise fissate negli anni, ma questa comodità certamente ti nega la possibilità di sperimentare e imparare, due cose a cui non voglio rinunciare.

Quando devi comunicare qualcosa, devi fare dunque centro nel suo sistema valoriale, e devi pensare: se questo progetto fosse stato mio, che cosa vorrei che arrivasse alla gente?

Per comunicare qualcosa bisogna innanzitutto conoscerla, studiarla, scoprire i lati positivi e negativi, esaltare i primi ed essere consci dei secondi. Poi, bisogna innamorarsi di ogni progetto in modo diverso, per un periodo seppur breve: esso deve far parte di te, devi capire che cosa arriva a te, cosa invece non arriva, che cosa ti sta dando in modo immediato e in che punto fatica a trasmettere pensiero. Poi, sulla base di queste sensazioni, studiare come farlo arrivare agli altri.

Manuelita Maggio, PR per Forlì Four Design

A volte il giornalista cui stai chiedendo di scrivere un pezzo su ciò che stai promuovendo diventa una specie di avversario da convincere affinché conceda spazio, tempo.

Tra me e il pubblico c’è un filtro che si chiama giornalista ed è giusto che ci sia. Se se da un lato, quindi, hai a che fare con qualcuno di potenzialmente interessato a ciò che gli stai proponendo sulla base di quelli che sono gli interessi della testata per cui lavora, dall’altro lui (o lei) percepisce perfettamente quanto tu credi in quello che gli stai proponendo. E proprio da questa energia decide se lasciarsi coinvolgere o meno.

Hai detto coinvolgere, non convincere.

Sì, non ho detto bene?

Hai detto benissimo. Ma continuiamo. Da quello che comprendo, occorre costruire un ponte tra mittente e destinatario. Dai, ora però lasciamo perdere la semiotica…

L’hai tirata in ballo tu.

Giusto…

(Ride.)

Insomma, dai: ti paio retorica se dico che in questo mestiere, alla fin fine, devi metterci un po’ il cuore? Allora ti chiedo: una buona pierre non è volte, e forse prima di ogni altra cosa, un mentore?

Guarda, (e già la sento che si mette sul pratico, che stringe per arrivare al dunque, e ci scommetto, per fare centro) certamente possiamo rendere il mondo un posto migliore se scegliamo di comunicare progetti che hanno un valore sociale ed ecologico, che in qualche modo fanno riflettere, aiutano a comprendere e conoscere. Io sono un po’ incosciente o forse coraggiosa, non accetto di lavorare su progetti a cui io non riesco ad attribuire un valore, su un libro che ritengo pessimo, uno spettacolo o un evento banale, un prodotto che non ha nulla di innovativo.

Ecco, io credo sia fondamentale che i rapporti debbano essere basati sull’onestà, il rispetto, l’educazione. E se tu ci metti questo, in qualche modo arrivi agli altri e migliori un pezzettino del loro mondo. È in questa logica che io mi prendo cura dei miei clienti, ascoltandoli e consigliandoli. Sì, in questo senso potrei usare la parola che mi suggerisci tu: mentore.

Manuelita, splendida nonna in bluejeans

Senti, per finire mi parli di quella laurea in architettura che hai nel cassetto?

Nel cassetto non certo perché sono pentita d’averla presa o perché, come fanno in molti, mi perdo a pensare che avrei potuto studiare questo o quell’altro. Lascia perdere, scrivici quest’altra cosa nell’intervista: scrivi che per un mondo migliore ci vogliono persone che considerano il lavoro un’occasione di crescita, scambio, conoscenza, di relazioni serene. Conosco gente che conta le ore per guadagnarsi la fine della giornata, per arrivare al weekend; non è un bel mondo il mondo in cui ci sono persone che vivono il lavoro come una

sofferenza. Anche se questo, spesso, non dipende da loro.

Fatto.