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Dora

Il fatto è. Ci si poteva parlare, con lei. I miei denti. Comunque, io ho scelto. Una sedia così comoda. Il mio nascondiglio. Pane. Una cosa che so solo io. Divento un uovo. Una schienuccia. Amicizia. Non dirlo a nessuno! Quanto è bello. Burro. Però mica lo so. Volevo capirlo, quel viso. Orchi e cantine.

 

Il fatto è che io l’ho capito subito.

Ecco, l’ho detto ancora. Non ci posso fare niente.

Mi viene proprio spontaneo questo benedetto il fatto è.

Dev’essere perché capisco che le cose stanno proprio in un certo modo, e non perché a me sembra così, o a chiunque altro, è proprio perché il fatto sta così, ecco. È presto spiegato, insomma.

Perché il fatto è, dicevo, che io l’ho capito subito che con lei, con Teresa, ci si poteva parlare. Se no non avrei finito la mia frase con una domanda. Tant’è che le ho detto: “Vero?” E il che lasciava intendere che avevo pur voglia di avere una risposta, da parte sua. Che mi importava di non averle rovinato il giardino: con il mio skateboard, intendo. Forse le ho spennato giusto un pochino il cespuglio di ortensie, quello nell’angolo.

Che poi, mi sa che l’hanno capito tutti che io ho paura ad andarci su questa tavoletta con sotto ‘ste rotelle diaboliche che rotolano, rotolano e poi, quando prendono velocità, e io comincio a sentire l’aria nei capelli sembra bello, ma mi si fa subito come un buco nella pancia e mi vengono quelle specie di vertigini e allora devo mettere giù un piede. E frenare. Poi mi giro di scatto per vedere se qualcuno mi ha vista fare questa cosa da paurosona. E per fortuna, fino a oggi non mi ha mai beccata nessuno. Almeno credo.

Però io ho trovato un mio modo di divertirmi con lo skate. Anche se posso farlo solo quando nessuno mi vede, perché mi sa che sembrerei troppo ridicola agli occhi degli altri. Agli occhi di Andrea, poi, non ne parliamo. Lui impenna, persino, con lo skate, ci va giù per le scale, poi fa ruotare la tavola con un colpo della caviglia e come ci riesce sempre io non lo so, però sterza e riprende con più velocità di prima. Beh, poco male. Perché io mi ci siedo, sullo skate. Sì, mi ci siedo, e con le mani spingo, spingo, e poi spingo, e le mani diventano come due piccoli remi o come le zampe palmate di un’anatra, che fa più ridere, lo so, ma il fatto è che è vero: si va veloci anche così. Allora prendo velocità. Se poi c’è un po’ di discesa, è fatta. Mi rannicchio tutta su me stessa, divento un uovo e penso che da dietro altro non si potrebbe vedere se non una schienuccia gobbuta mentre si gode il vento che finalmente, in un modo che piace anche a me, mi ributta indietro tutti i ricci. Poi però, quando mi fermo, e li tocco, capisco che il vento non è stato abbastanza per appiattirli come piacerebbero a me. Pazienza. Magari andando più forte, un giorno.

Comunque, il fatto è che con Teresa siamo diventate subito amiche. Perché a me è venuto spontaneo non scappar via dopo averle chiesto scusa. Non era la prima volta che entravo in quel giardino. Dietro alla sua casa c’è solo una piccola recinzione in cemento, un po’ franata. Dev’essere per quello che ho pensato che la casa fosse disabitata. Anche le persiane che danno sulla strada, sul davanti, sono sempre chiuse e lo fanno pensare.

Ma quel pomeriggio, quando Teresa mi ha sorpreso a guardare da sotto in su, cercando come una bimbetta di due anni le ciliegie a febbraio, ho notato che il giardino era attraversato da una stradina di beole e che quel serpentello di pietre conduceva a una breve scalinata. Dagli scalini si accede alla cucina di Teresa attraverso una grande porta di vetro.

In effetti, non ho pensato neanche per un istante che quella era pur sempre una persona sconosciuta. E io non sono certo una che dà confidenza a tutti! Ma non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello, ecco, che lei non la conoscevo e che avrei dovuto salutare e andarmene. A certe cose si pensa solo dopo.

Un po’ mi sentivo anche in colpa per averla disturbata. L’ho capito dal fatto che si stava pulendo le mani nel grembiule che dovevo averla interrotta. Poi un treno è passato e tutte e due abbiamo dovuto lasciare spazio al suo boato. Alle volte accadono cose più forti di noi, che ci interrompono.

“Ma no che non hai rovinato nulla, piccola!”

Ecco, mi è piaciuto da subito che un adulto non avesse nulla da ridire su di me e sulle cose che avevo fatto.

Che comunque, qualsiasi sia il motivo per cui brontolano gli altri, i grandi, intendo, a un certo punto, pazienza. Tanto io la mia decisione, quella che conta, l’ho già presa. E al momento giusto, la farò sapere al mondo.

“Io mi ricordo di te! Ti sono cresciuti i capelli dallo scorso anno!” mi ha detto Teresa.

“Sì, ma non sono diventati più lisci, come speravo…”

Allora lei mi ha sorriso e io, stranamente, non ho avuto l’istinto di ritirare subito i miei due dentoni davanti, per nasconderli nella bocca. Ho sentito che potevano anche rimanersene lì, a scavare ancora un po’ la pelle del labbro di sotto, a calcare su quelle piccole due fossette in cui, i miei denti, così lunghi, si accomodano ben volentieri. Dato che sono troppo lunghi, sì, lo so. Ho dodici anni, i capelli crespi e i denti che sparano, qui davanti.

“Che begli occhi hai, sono così azzurri che sembra di guardare il cielo!”

E poi questa frase, sì. La solita che sembrano riuscire a inventarsi tutti, penso per compensare la prima impressione un po’ conigliesca che sembrerà uscire dal mio muso. Ma detta da Teresa sembrava sincera. Dolce. Le persone fanno così fatica a essere dolci. Si difendono tutti. Però mica lo so perché, o da che, in fondo.

Allora mi sono avvicinata a lei. Sempre stringendo lo skate sotto l’ascella. Anche se avevo indosso una maglietta bianca e avevo paura di sporcarla di terra. Ma mi interessava capirla la sua faccia.

Io facevo dei passi e lei restava immobile, le sue mani sempre impegnate a rimescolarsi nel grembiule. Poi il grembiule è tornato al suo posto e io le ho visto bene le dita. Facevano uno strano zig-zag che partiva dal polso e proseguiva in un fascio di vene in rilievo, sotto una pelle sottile, morbida. Mi è sembrato potessero anche far paura ad altri quelle dita. Ma non a me.

“Vuoi entrare? Io mi chiamo Teresa, e tu? Ho appena finito di preparare la marmellata di limoni. Ne vuoi un po’?”

Se fossimo state in una fiaba, la vecchietta che avevo davanti si sarebbe trasformata in un orco cattivo, per legarmi, rinchiudermi in una qualche cantina puzzolente o farmi chissà che. Ma la realtà è sempre più noiosa di quello che sembra. Dev’essere per questo che a volte ci delude.

Fatto sta che dopo un minuto che parlavamo – e io le avevo chiesto, per carità, di non chiamarmi più bambina, o piccola, ma soltanto con il mio nome, Dora – era come se fossimo amiche da una vita.

A me i maschi non piacciono, sia chiaro. E neanche gli adulti. E anche con le femmine mica sempre ci vado d’accordo. Con quelli più piccoli, poi, non parliamone. Impossibile farci un discorso. Ma il fatto è che non avevo mai pensato che la soluzione potesse essere fare amicizia con una persona anziana. Che fosse un’estranea, ben inteso, e che quindi non sentisse la necessità di farti da nonna, tutta caramelle e raccomandazioni.

Quella volta non abbiamo fatto altro che parlare. Ci siamo sedute e abbiamo parlato. Le sue sedie sono comode. Sono ricoperte da cuscini a fiori, gialli e verdi, e l’imbottitura si rigonfia tutta a onde e resta attaccata allo schienale per via di due fettucce di cotone. Una si era slacciata quasi del tutto. Allora l’ho riannodata e Teresa mi ha guardata con gli occhi pieni di gratitudine. Poi ho visto che anche altre fascette penzolavano nel vuoto, molli. Le ho strette e infiocchettate per bene.

E dicevo, abbiamo parlato tanto. Di quanto il pane sia più buono tostato, per cominciare. Che se poi è ancora caldo ci puoi spalmare meglio il burro, perché è caldo e si scioglie, ovvio.

Comunque la marmellata l’aveva già sigillata tutta, nei barattoli di vetro, e quando ci siamo trovate, ciascuna con in mano il proprio pezzetto di pane croccante, ci siamo guardate in faccia e abbiamo avuto lo stesso pensiero. Così abbiamo passato una buona oretta a fare scarpetta, con il pane, direttamente nel pentolone di rame. Che bel colore che ha il rame. È come se fosse d’oro, ma c’è qualcosa di rosa, in più, nei suoi riflessi.

Le ho spiegato la tecnica con cui vado sullo skateboard. E lei l’ha trovata ingegnosa. Non ha mai riso di me. A un certo punto mi è sembrato quasi che volesse andarci pure lei! Allora le ho detto: “Vuoi provarci, Teresa? Te lo presto lo skate, se vuoi!”

“Sì, vorrei provarci, vorrei provarci davvero! Ma credo sarebbe poco prudente…”

Mi è dispiaciuto. Per lei che non poteva farlo, e per me stessa, che ero stata poco delicata, credo. Ma in quel momento non ho avuto nemmeno il tempo di sentirmi in difetto. Stavamo già parlando di altro, noi due.

Poi è arrivata Mirna. Era mercoledì, infatti. È così che sono diventati belli i mercoledì.