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Ritratto di Luigi

Luigi schiude appena le labbra quando parla. Come se le parole volesse proporle con una misura, una prudenza. Come se avesse sempre necessità di sincerarsi sul passo successivo, in una timidezza preventiva. Non invadono le parole di Luigi, eppure accolgono mentre racconta di un’esperienza incredibile rispetto alla quale, in qualche modo, la sua pacatezza stride. Ma lui lo sa che sta parlando di qualcosa di molto, molto difficile. Lo sa che negli occhi di chi lo ascolta fiorisce spesso lo scetticismo, ma anche la più forte e insopprimibile delle curiosità.
Luigi Ronzulli oggi lavora in ospedale, fa l’infermiere in un reparto di rianimazione pediatrica. Io non saprei immaginare un ambiente di lavoro più difficile. Mi chiedo se sia tra quelle corsie che ha imparato a misurarsi così tanto.
Lo intervisto: ricorda nitidamente ciò che ha vissuto, a quindici anni, dopo l’incidente. “Come un vino che a berlo non ci puoi credere quanto è buono”: è inebriante la luce divina di cui racconta nella certezza di non avere portato a casa, nonostante un salto nell’aldilà, tutte le risposte del mondo. Non basta assaggiare Dio: bisogna praticarlo attraverso l’amore. E questo lo si può fare in questa vita e la sua è una vita di dono di sé agli altri. Da sempre, praticamente: da quando con un gruppo di volontari specializzati offriva una via di uscita alle ragazze di strada, vittime di una tratta che su Torino era più feroce che mai. Fino all’impegno di oggi: un tetto per uomini e donne in difficoltà economica e abitativa. Un tetto che anno dopo anno, casa dopo casa, sta diventando sempre più ampio. Come nel caso, per citarne solo uno, della Cascina Solidale Marchesa, a Fiano Torinese: un posto dove stare non solo al sicuro, ma anche in cui trovare una nuova e più fiduciosa visione di sé attraverso la condivisione delle fatiche e della gioia della terra, fra orti e frutteti che profumano di speranza.

L’intervista a Luigi Ronzulli si trova qui:

Lavori in corso

Forse non tutti lo sanno, ma molte persone, negli ultimi istanti della vita, hanno visioni su un mondo che sentono fermamente di poter definire Aldilà. Scenari che poi raccontano dopo esser sopravvissute, sfuggendo alla morte per un soffio. È un argomento che suscita molte reazioni, me ne rendo conto. Speranza, curiosità, a volte irritazione, ilarità, o scetticismo.

Dalla fine degli Anni Ottanta a oggi è fiorita un’ampia bibliografia sul tema, ma è stato solo quando alcuni ricercatori, per lo più medici rianimatori, hanno cominciato a condurre ricerche con metodologie codificate e condivise, che questi semplici aneddoti, in fondo propri di ogni tempo e cultura, hanno assunto contorni più precisi. I racconti dei reduci dalle NDE, acronimo che sta per Near Death Experience, presentano infatti dei tratti ricorrenti. A differenza di quanti dichiarano di aver avuto apparizioni e dialoghi con esseri superiori spirituali, riportando messaggi soggettivi e variegati, coloro che si sono trovati in punto di morte sono accomunati dalla certezza di aver vissuto in un luogo più vivido che mai, sovente illuminato da una luce radiosa e in grado di far percepire un senso di accoglimento profondo che tutti finiscono per tradurre con la parola “amore”. Con la diffusione della rete e la possibilità che essa dà di tracciare, condividere, creare connessioni e raffronti fra i casi, questo genere di esperienze non è più stato affidato alla sola oralità, o tutt’al più, alla letteratura di nicchia di stampo visionario. Il più importante studio scientifico è stato quello condotto dal cardiologo olandese Pim Van Lommel, il quale pone nelle più futuristiche frontiere della fisica la possibilità di comprendere l’associazione di una coscienza a un corpo fisico, ipotozzando il presupposto della sopravvivenza della prima sul secondo. I suoi studi sono stati pubblicati su The Lancet, una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali. Queste persone, in definitiva, non muoiono. Arrivano a passo dal perdere la vita, ma alla fine si salvano. Sono quasi morte, insomma. Molte delle loro funzioni si arrestano e spesso i medici parlano di segni cerebrali piatti, o utilizzano quelle espressioni che tutti abbiamo sentito, almeno una volta, per indicare persone ormai ridotte a fisiologia pura. Tornare, per i reduci, è difficilissimo. Il loro assomiglia a uno schianto, dicono, a una percezione nuova, pesante, difficile del proprio corpo. In loro si azzera la paura della morte, mentre resta quella per la sofferenza fisica e morale; quest’ultima risiede in buona sostanza nel distacco patito da quella fonte attrattiva e inebriante che a volte chiamano Dio.

Io non so se un giorno la scienza darà una spiegazione ai percepiti di queste persone. So che le loro storie mi interessano, comprendo che il loro è un messaggio di bene universale per il quale vale la pena metterci faccia e cuore, anche correndo il rischio di essere vista come uno dei tanti inseguitori di patetiche fascinazioni.

Dopo due anni di studi molto approfonditi, ho deciso che queste storie io vorrei provare a raccontarle.