Lavori in corso

Forse non tutti lo sanno, ma molte persone, negli ultimi istanti della vita, hanno visioni su un mondo che sentono fermamente di poter definire Aldilà. Scenari che poi raccontano dopo esser sopravvissute, sfuggendo alla morte per un soffio. È un argomento che suscita molte reazioni, me ne rendo conto. Speranza, curiosità, a volte irritazione, ilarità, o scetticismo.

Dalla fine degli Anni Ottanta a oggi è fiorita un’ampia bibliografia sul tema, ma è stato solo quando alcuni ricercatori, per lo più medici rianimatori, hanno cominciato a condurre ricerche con metodologie codificate e condivise, che questi semplici aneddoti, in fondo propri di ogni tempo e cultura, hanno assunto contorni più precisi. I racconti dei reduci dalle NDE, acronimo che sta per Near Death Experience, presentano infatti dei tratti ricorrenti. A differenza di quanti dichiarano di aver avuto apparizioni e dialoghi con esseri superiori spirituali, riportando messaggi soggettivi e variegati, coloro che si sono trovati in punto di morte sono accomunati dalla certezza di aver vissuto in un luogo più vivido che mai, sovente illuminato da una luce radiosa e in grado di far percepire un senso di accoglimento profondo che tutti finiscono per tradurre con la parola “amore”. Con la diffusione della rete e la possibilità che essa dà di tracciare, condividere, creare connessioni e raffronti fra i casi, questo genere di esperienze non è più stato affidato alla sola oralità, o tutt’al più, alla letteratura di nicchia di stampo visionario. Il più importante studio scientifico è stato quello condotto dal cardiologo olandese Pim Van Lommel, il quale pone nelle più futuristiche frontiere della fisica la possibilità di comprendere l’associazione di una coscienza a un corpo fisico, ipotozzando il presupposto della sopravvivenza della prima sul secondo. I suoi studi sono stati pubblicati su The Lancet, una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali. Queste persone, in definitiva, non muoiono. Arrivano a passo dal perdere la vita, ma alla fine si salvano. Sono quasi morte, insomma. Molte delle loro funzioni si arrestano e spesso i medici parlano di segni cerebrali piatti, o utilizzano quelle espressioni che tutti abbiamo sentito, almeno una volta, per indicare persone ormai ridotte a fisiologia pura. Tornare, per i reduci, è difficilissimo. Il loro assomiglia a uno schianto, dicono, a una percezione nuova, pesante, difficile del proprio corpo. In loro si azzera la paura della morte, mentre resta quella per la sofferenza fisica e morale; quest’ultima risiede in buona sostanza nel distacco patito da quella fonte attrattiva e inebriante che a volte chiamano Dio.

Io non so se un giorno la scienza darà una spiegazione ai percepiti di queste persone. So che le loro storie mi interessano, comprendo che il loro è un messaggio di bene universale per il quale vale la pena metterci faccia e cuore, anche correndo il rischio di essere vista come uno dei tanti inseguitori di patetiche fascinazioni.

Dopo due anni di studi molto approfonditi, ho deciso che queste storie io vorrei provare a raccontarle.