Teresa

La pancia di una casa. I fiori del maggiociondolo. Barattoli di vetro. Se la tavola è in disordine. Sento dei passi. Odore giallo, di zucchero e limoni caldi. Il rame balugina. Tutti i treni sferragliano. Amaro segreto. Capelli di bambina.

 

Il mio nome è Teresa.

La mia cucina è grande, ed è sempre aperta.

Al centro della stanza, c’è una grande porta finestra. È tutta vetro, è tutta luce.

Sono seduta. Ma ora mi alzo e poi, sì: vi dirò tutto. È tempo.

Oggi è il sedici di febbraio, vero? La primavera soffia, ampia, tiepida sui fiori del maggiociondolo.

Avete mai visto i fiori di un albero di maggiociondolo mentre il vento li fa vibrare? Se non vi è mai capitato, avete ancora almeno un motivo per continuare a vivere. Non è poco.

Quanto a me, io lo conosco bene il tremolio di quei fiori. Eppure questo miracolo si rinnova, ancora e ancora, davanti ai miei occhi. Ma non mi azzardo a chiedere perché, perché di nuovo. Coltivare amarezza sarebbe sciocco.

Ho novantaquattro anni e la primavera torna a pulsare sotto la pelle liscia dei miei polpastrelli.

Per certo, non merito tutta questa vita. Ma non è una questione di meriti il tempo concesso.

Ci sono molti barattoli, qualcuno anche rovesciato, sul mio tavolo. Essi aspettano, vuoti e trasparenti, di essere riempiti con ciò che ancora sobbolle nel mio bel pentolone di rame. Gocce di luce baluginano sulla sua superficie. Poi rimbalzano, tutto intorno e nei miei occhi.

C’è odore di zucchero nell’aria. È un odore caldo, e giallo, che si muove in piccoli vortici.

Salterella, l’aroma oleoso dei limoni, forma cerchietti concentrici, scivolando alla fine in piccoli risucchi. E poi sono sbuffi, che spandono per rilasciare, d’improvviso, questa poesia, queste carezze lievi, morbide.

Non c’è tregua, invece, per queste ginocchia che scricchiolano e per questa anziana donna che sono e che vaga nel suo moto perfetto e ormai perpetuo per l’ampia pancia di questa casa.

Non c’è pietà in questo ostinato proseguire.

Si invecchia, ecco tutto. E a invecchiare con i segreti conficcati nel petto si diventa gracili, patetiche macchiette rosa in cerca di ascolto, pur sapendo che le orecchie che avrebbero dovuto davvero sentire non possono farlo più.

La polpa della frutta si sfalda lenta, mentre la rimescolo. C’è ancora molta energia in questo polso, sapete?

Antonia, piccola bambina mia, tra poco tutto sarà pronto. Io raddrizzerò quei barattoli sul tavolo, li riempiremo e faremo scorta d’amore per l’inverno che ci attende. Allora accenderemo il camino, tosteremo fette di pane, prepareremo un tè, scuro e bollente. Poi spalmeremo il burro su quelle fette e le inonderemo della nostra marmellata. Mangeremo e parlare non servirà, perché saranno cose di cui il cuore non avrà più bisogno.

Antonia non c’è più. Antonia era la mia bambina.

Lo racconto a voi per ricordarlo a me stessa che mia figlia è morta. Che mia figlia è morta.

Che io l’ho seppellita, pur essendo più vecchia di lei.

Vi prego, però, non ditelo! Non dite quella cosa anche voi, non negatemi il diritto alle lacrime. Settantasei anni sono una buona età per morire, hanno canterellato tutti, credendo di consolarmi. E lei era malata, lo sai, Teresa. E tu sei sana e devi andare avanti.

Devo andare avanti, mi hanno detto. Ma fino a quando si può sorridere di un simile stornello? Lei era mia figlia e io voglio piangerla, voglio piangerla per tutti i giorni che mi restano e che a me paiono sempre più numerosi, e che si gonfiano al posto di contrarsi: ingrata, io.

Ecco, ho spento il fuoco. La superficie di questo liquido denso si alliscia. Le ultime gobbe scoppiano, poi si acquietano. Con il cucchiaio di legno increspo di nuovo tutto in un cerchio quasi prodigioso: vapori odorosi si liberano nell’aria.

I barattoli sono allineati, adesso. Prendo un mestolo. Ha un beccuccio sottile che mi aiuta ad accompagnare questa composta nei contenitori. Poi li richiuderò. Stringerò con forza, ve l’ho detto che ancora ce la posso ancora fare! Quindi li capovolgerò, così che la marmellata di limoni, ancora bollente, sterilizzi anche i coperchi. Le etichette sono pronte. Anche le piccole rondelle di stoffa, a quadretti, bianchi e verdi. E il nastro di iuta, con il quale farò un bel nodino. Le operazioni minute sono le più difficili per le mie dita.

Sento dei rumori. Provengono dal mio frutteto. Lascio ogni cosa sul piano di lavoro: sono passi di una persona, quelli, ed è gioia per me!

Se smetto di rimestare, tutto si solidifica, a strati, lungo le pareti della pentola. Ma non importa perché forse non sono più sola, adesso! Ed è bello. È bello anche se ancora non so di chi sia quel lento calpestio tra le foglie. Abbandono i miei fornelli. Attraverso la porta finestra e mi affaccio sulla piccola ringhiera della veranda.

Uno sferragliare di rotaie annuncia il treno delle cinque. Non vedo nessuno. C’è solo questo rumore, solo questo ritmo metallico. Tutti i treni sferragliano. Tutti i treni si fanno attendere. Poi si lasciano intravedere, da sinistra. Appaiono. Scintillano di velocità. I treni scompongono i capelli. Ti costringono a chiudere gli occhi e quando li riapri sono passati, non si sono fermati e tu puoi solo osservarli diventare una piccola cosa, nerastra, lontana.

Sì, che bello, un nuovo stropiccìo, lì, tra gli alberi! Non l’ho sognato, vedete! Ma… È di nuovo lei! Sono felice.

“È ancora presto per le ciliegie, piccola!” “Oh no, ti prego, non scappare. Non volevo spaventarti. Né tantomeno sgridarti…” “Ti prego, resta, bambina. Anche io le guardo, le guardo e le aspetto, sai? Anche a me sembra incredibile che quelle palline dure e verdi, possano diventare rosse, sugose. Ma dovremo aspettare luglio. Bisogna sempre aspettare luglio…”

“Scusi.” “Io pensavo… Me ne vado, mi scusi.”

“Puoi restare, se vuoi! Puoi restare, ti prego…”

Non ho sognato, non sto vaneggiando. È davvero una bambina, quella. Non la mia, certo. La mia aveva i capelli più rossicci, sapete.

Questa piccola in cerca di ciliegie, invece, ha i capelli lunghi, castani. Ricci. E mi fa sentire che io sono ancora parte di questo mondo e che può ancora esserci qualcosa di bello, per me, quaggiù.

“Non c’era un recinto e io sono… scivolata dentro. Sa, questo coso ha le rotelle sotto e io… non immaginavo fosse il suo giardino, mi scusi.” “In effetti dovevano essere pure di qualcuno questi alberi…”

“Qualche volta le ciliegie crescono spontaneamente, sai? Sicché si dice che sono selvatiche. Hanno un sapore più asprigno, ma ci si possono fare dei dolci… dolci così buoni…”

“Però lo skateboard l’ho sollevato, adesso, vede? L’ho messo qui, sotto il braccio, non ho rovinato nulla! Almeno credo. Vero?”

Dora. Mi dice di chiamarsi Dora, lei.